Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa di San Giovanni in Avezzano

Desidero parlare direttamente a te carissimo Alberto, e attraverso di te a tutti voi, me compreso. Intendo rivolgervi parole dirette, non tanto sul fare del diacono ma parole dirette all’essere del diacono. Perché ciascuno di noi dev’essere giudicato da Dio sulle profondità del suo cuore e non tanto sul fare. Oggi tu sarai chiamato a essere ministro della Chiesa, ministro servitore di anime. Tutto il cristianesimo è la storia di un grande amore. L’amore delle origini, di Maria, degli apostoli. L’amore dei santi, quelli venerati e quelli anonimi. L’amore di quanti non fuggono da Dio e gli consegnano anche nel silenzio la propria vita, la propria esistenza. Oggi tu dirai un sì. Oggi tu sceglierai la dimensione profetica dell’accettazione a essere servo innamorato di Gesù, servo innamorato della Chiesa, servo innamorato dell’uomo. Il diacono è nelle sue profondità un servo innamorato. Non ti spaventi questa parola. La grandezza del credente è tutta nel deporre la propria vita deponendo la propria autosufficienza, deponendo l’amore di sé stesso per diventare proiezione di colui che si è spogliato della sua stessa divinità per assumere una carne impastata con la carne dolorante di una umanità in cerca di amore. Diacono: servo innamorato.
Non ti spaventi questa definizione che deve essere la gioia del tuo diaconato. Sia per te e attraverso di te una definizione alternativa “essere servi innamorati” in un tempo, come il nostro, attraversato dalla cultura dell’immagine, dalla sottocultura dell’efficienza intesa come dominio null’altro e manipolazione sull’altro. Una cultura che sta creando la notte dell’etica e dell’indifferenza verso il destino degli altri, non riconosciuti più come fratelli e sorelle da custodire. Sii servo innamorato di Cristo, assumendo e vivendo la parola di Cristo stesso. Rendendo la parola di Cristo contemporanea alle attese e alle speranze di quanti lui stesso ti mette accanto.
Oggi sappiamo che per molti Gesù è solo un fondale di ricordi ma non una presenza viva. Il cristianesimo, sganciato da Cristo, si riduce a una sintesi di precetti e di divieti morali, perché le decisioni per la vita si prendono altrove e si prendono senza Cristo. Il grande dramma di oggi è l’espulsione di Gesù dal cristianesimo. Devi essere alternativo a questo modo di pensare della gente. Sarai annunciatore della parola comunicando una parola viva, vibrante, che tu sperimenterai soprattutto nella tua vita, convinto che la parola di Gesù è l’unica dimensione che tocca l’esistenza, provoca un giudizio nuovo sulla realtà, cambia i rapporti tra le persone. La parola edifica nuove modalità di vita e costruisce segmenti di società nuova. C’è in giro un annuncio invertebrato della parola di Dio, un annuncio sentimentale, estetico, banale. La parola di Dio si riduce a un brodino tiepido.
San Paolo diceva: «ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8). Togli dall’annuncio della parola di Dio tutto ciò che è superficiale, fai rimanere l’essenziale. L’essenziale è Gesù Cristo. Non dimenticare mai che ogni parola annunciata e vissuta è sempre conficcata sulla croce. La croce è sempre seme di risurrezione che feconda i solchi aridi delle anime. Sii sempre perdutamente innamorato della Chiesa. E ogni amore non pretende ma dona. Dona! Perché se l’amore pretende non è amore, è altro.
Alberto, lo dico a te ma lo dico a tutti. Porta te stesso dentro la Chiesa affinché la chiesa con te possa essere un riflesso della bellezza di Dio. La Chiesa fondata su Pietro, la Chiesa diocesana guidata dal tuo vescovo che oggi è qui per dirti di spenderti perché in questo tempo spendersi nella Chiesa è l’unica dimensione per far uscire la nostra fede dalle sacche della nullità. In questo e non in altro si realizza in pienezza la vocazione alla quale Cristo ti chiama e ci chiama. Sarai un diacono per la Chiesa diocesana, per la Chiesa dei Marsi, per la tua e la nostra Chiesa, per una Chiesa di cui dobbiamo essere ancora perdutamente innamorati.
Sii servo innamorato dell’uomo. Non dell’uomo che è soltanto un’astrazione, un pensiero della mente. Ma l’uomo di oggi, l’uomo concreto che opera e cammina nella stagione concreta dove tutti siamo immersi. Una stagione decisiva, perché quella attuale è una stagione di esodo, un grande passaggio, dove nessuno oggi riesce a capire dove approderà. Essere interrogati dalla storia e lasciarsi interrogare dalla storia diventa ancora una grande riserva per non fare della nostra fede un’astrazione accanto alle attese dei nostri fratelli. Il mondo di oggi è un mondo complesso. Lasciando da parte la pandemia, ci sono segni di grande positività che esprimono la richiesta di una unità universale, che porta con sé il senso forte dell’amicizia, della pace, della globalizzazione. Quando papa Francesco dice «siamo tutti sulla stessa barca», questo significa.
Ma nello stesso tempo il mondo di oggi vive e muore di contraddizioni. La concentrazione del potere dei media, l’eclissi dell’intangibilità ella vita umana, il primato della finanza concentrata in poche mani, l’esclusione dei poveri dal banchetto della giustizia. Per servire il mondo di oggi, sei chiamato, Alberto, e siamo chiamati come credenti a tradurre nella vita l’eucaristia. È il sacramento dove Dio si fa mangiare, dove Dio si consuma. Traduci nella vita l’eucaristia, sei chiamato a prolungare l’eucaristia diventando servo di amore lungo le strade della vita. Sei chiamato a unire l’altare con la strada. Si mangia Cristo per essere mangiati.
Sarai un dono di Cristo che si muove, che va verso, che non aspetta che qualcuno chieda di essere consolato, ma sarai tu ad andare per primo. Sarai dentro le povertà nascoste, diventerai presenza accanto e dentro le solitudini, le malattie del corpo e dell’anima. Eviterai le ipocrisie della mente e dei comportamenti. Ti basterà come riferimento l’icona del buon samaritano. Oggi le strade non sono diverse da quelle che Gesù percorreva, è sempre l’unica strada che va da Gerusalemme a Gerico. La strada è sempre quella e i feriti sono sempre quelli. Ti affido ai santi arcangeli che oggi celebriamo e alla Vergine santissima, Madre accogliente, Madre di Cristo e Madre della Chiesa.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla concattedrale di Santa Maria delle Grazie in Pescina

Tempi di dolore, tempo di volti velati, tempo di sconforto per molti, per tanti. Tempo di lutti senza abbracci, tempo di incertezza in un presente sofferto e per un domani dall’orizzonte inquieto. Tempo di difesa dal contagio aggressivo dentro le nostre case. Case, chiamate ad essere, oggi più di ieri, cenacoli dove ricomporre il vocabolario degli affetti condivisi e donati. Tempo, per dirla con papa Francesco, di preghiera perché «dia al suo popola, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non ritorni». Tempo di nostalgia. Nostalgia di feste della socialità pubblica ma anche riscoperta di una festa che non è ritualità convenzionale ma è interiorità di speranza, fiducia nell’intercessione dei nostri santi, di quanti hanno contagiato con la santità la nostra terra.
Oggi è la festa dell’anima per Pescina, cara e straordinaria città, e per tutta la diocesi dei Marsi. Festa di congiunzione delle nostre anime con san Berardo, affinché con lui si rinnovi un patto di sguardi. Dobbiamo tornare a guardare Gesù come lo ha guardato san Berardo, lasciando che Cristo trasformasse la sua vita rendendola dono totale per il suo popolo. Questo è stato san Berardo, il pastore buono che ha attraversato le strade della Marsica lottando contro i virus della simonia, delle corruzioni morali e sociali, della violenza sui poveri, del Vangelo scarnificato e manipolato persino dai suoi ministri. È stato il pastore buono Berardo. Ha guidato il suo gregge amando le pecore, una per una, con fermezza e misericordia, difendendole da ladri e mercenari e orientandole versa la verità, non con retorica mondana, non con vesti appariscenti, ma offrendo se stesso come segno incontrabile, toccabile, della presenza di Gesù. All’intercessione di Berardo ci riaffidiamo per chiedere al Signore una rigenerazione dei fondamentali del nostro cristianesimo. E i fondamentali sono: la fede, la speranza, la carità.
La fede. Berardo ha permesso a Dio di entrare nella storia consegnando a Dio i suoi progetti e mettendosi dalla parte di Dio. Rigeneriamo la nostra fede per essere un popolo che vive di fede. Una fede che ha in Gesù il suo fondamento, che ha nel Vangelo di Gesù, il criterio della sapienza, l’alfabeto delle parole della verità. Occorre togliere tanta polvere dalla nostra fede, per restituirla alla sua origine: l’incontro con Cristo che cambia la vita. Perché la fede non è «credere che…», «credere che…». La fede è rendere Dio nel presente. La fede è collocare Dio nel presente.
La speranza, nel tempo di Berardo, era una terra (la Marsica) prostrata e avvilita. Una semplice protesi di altre magnifiche ed appariscenti centralità. Berardo ha ridato dignità ad un territorio, ha ridonato speranza, formando un popolo, non composto da individui sfilacciati, ma un popolo dove ogni persona si sentiva custodita da un’altra persona. La speranza non è la virtù consolatoria da consumare nel privato. La speranza è dono da riversare (spero), donando speranza (spero).Io spero quando riesco adire a Dio «io appartengo a te», ma anche quando riesco a dire a ogni altro «tu mi appartieni». E questa sarà anche la chiave culturale, etica, sociale, non solo religiosa, che ci permetterà di attraversare il dramma della pandemia, custodendoci a vicenda e non guardando il prossimo come una minaccia.
E infine, la carità. Berardo, padre tra i poveri e padre dei poveri, era continuamente fuori dal palazzo per cercare i poveri e donare loro pane e sicurezza. Oggi è tornata l’urgenza della carità, una carità forte, diffusa e diffusiva. La pandemia sta causando ed accentuando ferite antiche: disoccupazione, mancanza di reddito, fragilità non ricomposte, depressioni. Deve tornare il cristiano che ha polverizzato la mediocrità. La mediocrità è la tomba della fede. Deve tornare il cristiano che si muove verso il bisogno, sapendo che il bisogno non esiste: esiste un volto che ha bisogno e che aspetta. Solo chi non fa del suo volto una maschera diventa capace di non blindare a chiave il suo cuore, ma di renderlo aperto all’accoglienza solidale. Solo la cultura e la prassi del samaritano può collegare Stato, istituzioni, Chiesa, volontariato, popolo e potrà aiutarci a vivere e a superare il dramma sociale che stiamo percorrendo.
Raccolgo tutte le vostre preghiere, quelle che appartengono alle vostre biografie e le collego l’una all’altra. Depongo tutto sull’altare e colloco ogni preghiera, come successore di Berardo, nel cuore di Berardo, affinché lui le trasmetta nelle mani di Gesù. Le mani che ci hanno salvato, le mani che ci salvano, le mani che ci attendono per introdurci nella Gerusalemme del cielo, quando la fede si cambierà nella contemplazione luminosa del volto del Signore. Amen.


Preghiera a san Berardo

San Berardo,
tu che sei stato pastore buono
e padre dei poveri,
proteggi la città di Pescina
e la Chiesa dei Marsi.
Custodisci le nostre famiglie
e rendile grembi stabili
di affetti mai spenti né consumati.
Illumina il cuore dei credenti
e aprili alla testimonianza
appassionata del Vangelo.
Conforta quanti attraversano
la notte del dolore:
trovino cristiani samaritani
che si mettano accanto
in prossimità solidale.
Illumina giovani:
sappiano avere lo slancio
dei grandi ideali per il bene comune.
Accompagna i nostri anziani:
per tutti restano una storia
di memoria e di sapienza.
Benedici i sacerdoti:
nel ministero siano voce
della tua Parola e segni del tuo amore.
Pellegrini nel tempo,
rivestiti di grazia,
sostieni il nostro cammino
verso la terra senza tramonto
quando la salvezza sarà
la visione del volto del Signore Gesù,
unico maestro e redentore.
Amen


+ Pietro Santoro
Vescovo dei Marsi

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Quest’anno i fuochi non hanno illuminato la notte della vigilia, non hanno illuminato il monte Salviano, il monte del Santuario, le contrade della nostra città. E non ci sono stati attorno ai fuochi volti in cordata di affetti, in convivialità, in conversazioni ritrovate, ma dentro le case il Rosario della preghiera e sui balconi, sui davanzali, sul palazzo di città un lume acceso. Una candela accesa per ritrovare la comunione delle anime, per sognare altre notti dove la persona possa essere restituita alla salute dell’anima e del corpo. Un lume acceso per esprimere la nostalgia e il desiderio di un mondo dove ogni uomo possa tornare a stringere altre mani, consegnando frammenti di luce e non di oscurità, frammenti di amore e non di divisione. Un lume acceso per rinnovare il desiderio di una luce senza tempo, sempre accesa e mai spenta. Una luce che scalda il cuore e lo riempie di infinito, ovvero la luce della fede. Quella che ci raggiunge nei cammini della lontananza e ci fa rientrare nella casa della verità, nell’unica casa della verità, in Dio. Nel Dio della vita e della storia, in Dio casa dell’eterno che ha voluto prendere dimora nel grembo verginale di una donna: nella Vergine Maria. E noi siamo qui oggi per ricomporre parole spezzate, per ridare lucentezza ai nostri sguardi, per incrociare lo sguardo di Maria, che dal suo santuario di Pietraquaria rinnova la sua protezione materna a ognuno e a tutti, alla nostra città di Avezzano. Oggi siamo distanti e insieme, siamo l’uno accanto all’altro in quella comunione dello spirito che è la sfida più grande alle distanze del cuore. Noi siamo qui per ricomporre speranze e affidamenti, certi che qui con noi c’è Maria, nelle vostre case, in ognuna delle vostre case. Nel cuore di Maria entriamo tutti e nessuno viene scartato né rimane fuori. Il cuore di Maria è la patria dove è sempre possibile rientrare, anche quando ci allontaniamo e percorriamo le strade della confusione.

Maria è la patria che genera continuamente il volto della misericordia, il volto di Gesù, suo Figlio e redentore nostro. È un tempo desolato il nostro, una desolazione che ha trovato descrizione accorata nelle parole, da voi tutti già conosciute, pronunciate da papa Francesco, nel sagrato della basilica di San Pietro il 27 marzo. «Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo ritrovati impauriti e smarriti, presi alla sprovvista da una tempesta improvvisa e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti». Ecco la verità. Ecco dov’è conficcato il nostro oggi e dove sarà conficcato il nostro domani, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Non è una verità intimistica ma è una verità culturale, sociale, etica. Una verità che deve diventare forza per risalire, risposta per riprendere il largo, coraggio per cambiare abitudini e stili di vita per inserire la parola fraternità nelle relazioni, nell’economia, perché fraternità vuol dire essere interconnessi, vuol dire la cura dell’altro. E la cura dell’altro parte dal rompere le distanze dell’anima. Possiamo e dobbiamo rispettare i distanziamenti sociali, ma i distanziamenti dell’anima non sono né umani e né cristiani. Abolire i distanziamenti dell’anima vuol dire costruire e ricostruire l’audacia di operare sempre un ponte tra il mio destino e il destino dell’altro. In questi giorni, tra le innumerevoli storie di dolore e di speranza, viste e ascoltate, c’è questa che ora vi trasmetto. È di una donna uscita dall’incubo del virus che dice: «Ciò che mi fa paura è la mancanza di solidarietà e di amore in senso civico. In troppi restano a casa per paura, non per amore dell’altro.
È devastante, soprattutto se quel sospetto diventa abitudine, se si spezza il fondamento dello stare insieme, dell’essere comunità. Potremmo ritrovarci ancora più soli di prima e vedere nell’altro una minaccia». Ecco l’orizzonte che ci attende come obbligo dentro e oltre la storia che stiamo attraversando: rompere la cultura della frammentazione, aprire e riaprire la chiave dell’impegno per la casa comune. Ora e ancor più domani, nella casa comune ci sono quelli sempre seduti alla tavola della festa e quelli che, come Lazzaro, nell’impoverimento accaduto e nelle relazioni scomposte, raccolgono solamente le briciole che cadono dalla tavola. I privati del lavoro e del reddito, le famiglie con fragilità permanenti, gli anziani esclusi dalla casa, i bambini con povertà educativa, gli immigrati, gli indebitati. Quante storie di pianto raccolte in questi giorni. Sono convinto che in una rinnovata sinergia che è già in atto tra istituzioni e Chiesa, tra istituzioni e volontariato, il grande cuore della città di Avezzano e il grande cuore della Marsica, saprà immettere nel tessuto sociale quel Vangelo vissuto e praticato che rende ognuno, nella sua collocazione, portatore di umanesimo, per non lasciare indietro nessuno e per rimettere in cammino chi si è fermato stanco e sfiduciato ai bordi della strada. È Maria che ce lo chiede, lei è la Madre di Gesù e Gesù non è un’astrazione, non è un simbolo, è lui il povero, lo scartato, il dimenticato, l’affamato, lo straniero. Gesù non è il silenzio del cielo, ma è il cielo che diventa carne da amare e da accogliere.
Vergine Maria, Madonna di Pietraquaria, in questo nostro tempo di abbracci virtuali ti chiedo, come pastore di questa terra, di abbracciare e di mettere sotto il tuo manto di protezione ogni persona di questa nostra amata città di Avezzano, che si affida a te. Madre di ogni speranza, suscita nuove energie, suscita donne e uomini capaci di rigenerare, come già nel tempo del terremoto, un tessuto sociale oggi esposto all’inquietudine e alla fragilità. Accogli con una carezza materna i nostri defunti, consola i nostri malati, con la stessa tenerezza che avevi quando tenevi tra le braccia tuo Figlio. Il tuo respiro faccia loro comprendere che nessuna lacrima va perduta dinanzi a Dio, che la croce è sempre sapienza di risurrezione. La tua consolazione si trasmetta a cristiani capaci di vera compassione, capaci di inventare tempi e luoghi dove l’amore ripari i disastri causati dall’indifferenza. Sostieni quanti negli ospedali, nelle Chiese, nella società civile, nella cosa pubblica sono costruttori reali del bene comune. Pellegrini verso l’oltre del tempo, verso l’eterno: ci accompagni il desiderio che trasfigura ogni desiderio, l’approdo alla salvezza eterna e la visione del tuo volto di Madre. Un desiderio che ti rivolgiamo, con la prima preghiera che abbiamo imparato, e abbiamo appreso dalle braccia delle nostre mamme, la preghiera dell’abbandono e della fiducia.
Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Dopo il venerdì santo della croce, dopo il sabato del grande silenzio, Maria di Magdala si reca alle porte di Gerusalemme, spinta dall’affetto che continuava a legarla al maestro, nella tristezza sconsolata che la storia di Gesù era ormai una storia chiusa, chiusa per sempre sul Calvario. E invece era una storia che si apriva, che ricominciava, era un libro che non conteneva l’ultima pagina. Cosa vide Maria? I suoi occhi diventano i nostri occhi. Vide la pesante pietra del sepolcro rotolata via come se un vento impetuoso l’avesse scagliata lontano. E poi, anche Pietro e Giovanni entrarono e videro la tomba vuota, i teli per terra e il sudario ripiegato a parte. E videro, e credettero. E i quaranta giorni dopo la risurrezione furono i giorni del perdono, degli affetti ritrovati, della garanzia che il Vangelo di Cristo non era rimasto inchiodato sul legno della croce ma cominciava a percorrere le strade del mondo per lievitare una nuova umanità: un uomo nuovo. L’uomo che può vincere il suo peccato, come Cristo ha vinto la morte. L’uomo che può credere e sperare che l’amore ha sempre l’ultima parola, l’uomo che non naufraga nell’abisso della morte perché può dire: «Il mio corpo non vedrà la corruzione. Diventato uno in Cristo col Battesimo, anche io risorgerò come Cristo è risorto».
C’è un rumore di fondo di fronte a questo grido: «Anche io risorgerò come Cristo è risorto». È il rumore di fondo di una parte della società, di donne e uomini che non riescono più a vedere l’ultimo cancello dell’esistenza. Quella parte di società che chiude e apre, quella che se non chiude non apre. Uomini che rendono la loro vita un deserto di sabbia, dove la sabbia copre un continuo agitarsi senza speranza. La speranza nella risurrezione dà luce a tutte le nostre speranze umane. È la certezza dell’eternità che ci fa camminare oltre quel cancello, oltre le delusioni, oltre gli smarrimenti, sempre oltre, fino all’oltre senza fine. E noi cristiani non siamo fuori di testa dentro questa speranza perché, la nostra testa, la nostra intelligenza, non è un vuoto a perdere, da quando è stata illuminata dalla luce e dal vento del mattino di Pasqua. Scriveva padre Turoldo, il mistico dell’infinito: «È il vento della Pasqua che questa notte e oggi passa lungo tutti i cimiteri del mondo. Passa di tomba in tomba e ad ogni tomba dice “Risorgerai”. E a tutte le tombe dice “Risorgerete”. È il vento della Pasqua che dice ad ognuno di noi: “Sei nato nel cuore di Dio e sei destinato a rientrare in questo cuore”». Tutto questo non è sentimento, perché porta a capovolgere, ora, il nostro modo di essere. Porta sin da ora a morire ad un vecchio modo di vivere per risorgere ad un nuovo modo di vivere: è la scelta della risurrezione. Non vi sembri paradossale questa espressione. Non siamo chiamati solo a credere nella risurrezione, siamo chiamati a scegliere la risurrezione. Sì, perché siamo chiamati ad essere cristiani della Pasqua. Un antico padre della Chiesa, sant’Atanasio, scrive: «Cristo ha distrutto la morte come fa il fuoco con le foglie secche». Ecco le nostre foglie secche da bruciare. Ognuno ha le sue foglie secche da bruciare con il fuoco della risurrezione. E nessuno può farsi giudice del prossimo, se non mettersi in prima persona di fronte all’unico specchio che non mente, l’unico che riflette il proprio volto senza deformazioni: lo specchio di Cristo. E lasciare che sia lui a travolgerci e a bruciare le foglie secche della nostra vita con il fuoco del suo Vangelo.
Don Primo Mazzolari scrive una pagina di straordinaria provocazione. «La Pasqua spartisce l’umanità, ci vaglia, ci butta o alla deriva o verso il porto». Il Vangelo di Cristo assunto e testimoniato ci conduce verso il porto, mai verso la deriva. Tante le derive. La deriva è l’essere abbandonati alla barca della propria solitudine, sconosciuta a noi stessi. La deriva è il naufragio di una società dove nessuno si sente responsabile di nulla. La deriva è costruire giorno dopo giorno una società dove un’intera generazione rischia di perdersi perché è stata tradita. Tradita, perché a questa generazione si dice che Dio non serve, che Dio è inutile e che la vita è soltanto un arrampicarsi sopra le spalle degli altri e vendersi al Sinedrio o al Pilato di turno. Il porto al contrario è il volto di Gesù risorto, è il Vangelo del risorto. Il Vangelo stampato nel volto di ogni persona che soffre nel corpo e nell’anima. Toccare il Cristo risorto significa toccare queste ferite aperte. Il porto è credere nell’amore, senza tradimenti, senza fughe, senza aspettarsi nulla. Il porto è la misericordia di Gesù che ci rialza dopo ogni peccato, per poi dirci di contaminare, noi, di perdono i rapporti, le situazioni. Il porto è sapere che in un mondo di pane raffermo, perché sempre più svincolato di senso, c’è Cristo che nell’Eucaristia offre il suo corpo glorioso per fermentare in noi la vita eterna. Il porto è ricredere che dopo la morte non c’è nulla e, come Cristo è risorto, anche noi siamo destinati alla luce senza tramonto. Questo è il fondamento della nostra gioia. Questo è il fondamento della nostra speranza. Lo so, è difficile credere tutto questo, soprattutto nel momento drammatico che stiamo vivendo tutti. È difficile crederlo dentro il pianto che accompagna le morti in solitudine, lontani dagli affetti più cari. Ci vuole coraggio a credere quanto in questi giorni è stato proclamato, nella XIV e XV stazione della via crucis del venerdì santo. Quando nemmeno ai parenti è dato di assistere e accompagnare le salme. Si muore da soli. Da soli si finisce in polvere. E scorgere la salvezza oltre la morte, risulta ancora più difficile. Dietro il velo di lacrime e di dolore, i nostri occhi non la vedono. Però, la pietra del sepolcro è rotolata, Gesù l’ha spinta oltre per noi. Allora e per sempre. Non possiamo e non dobbiamo ricollocare la pietra tombale dinanzi al nostro cuore e nelle nostre famiglie, sigillando paure e speranze. Ma come ha detto papa Francesco durante la veglia di questa notte: «Dobbiamo ripartire con coraggio seminando germogli di speranza». Possiamo e dobbiamo farlo. Ora, dentro le nostre case e domani oltre il recinto, oltre ogni recinto. Auguri!

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