Saluto e ringraziamenti di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla piazza Vittorio Emanuele II in Andria
al termine della santa Messa di ordinazione episcopale

Nel famoso dipinto del Caravaggio, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, che rappresenta il momento decisivo della chiamata di Matteo, Gesù indica col dito Matteo che siede al banco delle imposte e gli dice: «Seguimi». Matteo sembra non capire l’invito, reagisce meravigliato e, a sua volta, col dito indica se stesso, come volesse chiedere conferma: «Ma chiami proprio me? Io che sono quello che sono?». Quante volte è risuonata in questi giorni in me la stessa domanda.
Ringrazio Dio che ancora una volta ha posato il suo sguardo misericordioso sulla mia povera persona.
Sia ben chiaro fin da questa sera che se qualcosa di buono riuscirò a fare sarà frutto della bontà e della misericordia di Dio che quando chiama qualcuno al servizio apostolico lo rende idoneo offrendogli una specifica identità ministeriale che nasce dalla sua grazia. A Dio la mia lode e il mio ringraziamento.
Ringrazio tutti voi per la vostra affettuosa presenza e ringrazio coloro che avrebbero voluto essere presenti ma non lo sono per via delle limitazioni dettate dall’attuale situazione di emergenza sanitaria. Un pensiero caro va agli ammalati e a quanti, grazie a Teledehon alle altre emittenti televisive, si sono uniti nella preghiera a questa eucaristia.
Ringrazio il vescovo Luigi, pastore di questa Chiesa, che fin dall’inizio del suo ministero episcopale in questa diocesi mi ha dimostrato stima e fiducia. Grazie, eccellenza, perché mi ha voluto bene come un padre e con il suo esempio mi ha spronato a spendermi per amore di Cristo e dei fratelli. E con lei ringrazio i suoi predecessori mons. Lanave, con il quale ho mosso i primi passi in seminario, e mons. Calabro, che mi ha ordinato presbitero e voluto come vicario generale.
Ringrazio mons. Pietro Santoro per il suo generoso ministero in favore del santo popolo di Dio che è in Avezzano e di cui farò molto tesoro. Grazie, eccellenza, per le attenzioni e le parole di stima e accoglienza che sin dall’annuncio della nomina mi ha rivolto. Mi hanno fatto molto bene.
Ringrazio mons. Luigi Renna per l’amicizia che ci lega da tanti anni. Mi conforta, carissimo don Luigi, la certezza di poter contare sempre sulla tua vicinanza.
Ringrazio tutti gli arcivescovi e vescovi qui presenti. In tanti hanno dovuto fare un lungo viaggio. La vostra presenza mi incoraggia perché non si è mai vescovi da soli. Con l’ordinazione episcopale si diviene infatti membro del collegio episcopale sempre unito ai fratelli nell’episcopato e a colui che il Signore ha scelto come successore di Pietro.
Un ringraziamento speciale sento di esprimere al cardinal Petrocchi, presidente della Conferenza episcopale abruzzese–molisana. La sua partecipazione, eminenza, a questa celebrazione è il segno della premura che da subito ha avuto nei miei confronti e della vicinanza con cui segue il cammino delle Chiese che sono in Abruzzo e Molise della cui unità non è solo figura rappresentativa ma concreto e fattivo promotore.
Una parola di gratitudine per la schiera innumerevole di persone amiche che mi hanno condotto quasi per mano fino a questo giorno. Ringrazio Dio per la vita e gli insegnamenti ricevuti dal mio caro papà che amo pensare tra le braccia misericordiose di Dio e di mia madre qui presente insieme a mia sorella, mio fratello e a tutti i miei parenti. Da loro ho imparato una fede operosa, la generosità verso i fratelli, la serietà del lavoro quotidiano e il gusto di una vita semplice.
Ringrazio Dio per voi presbiteri, diaconi, religiosi e religiose della diocesi di Andria. Vi confido che mi sono sempre sentito voluto bene da tutti voi e che tanto ho imparato dalla vostra carità pastorale e dalla vostra passione per il vangelo. Questa Chiesa locale non è certamente perfetta ma è costituita da presbiteri che lavorano generosamente per l’annuncio del vangelo e io mi sento espressione di questo presbiterio generoso e animato da vincoli di fraternità. Alcune fulgide figure di sacerdoti mi sostengono dal cielo. Approfitto per rivolgere l’augurio di un ministero sempre più fecondo a don Franco Leo, don Francesco Santomauro, don Michele Leonetti, don Domenico Evangelista e don Alessandro Tesse che celebrano quest’oggi l’anniversario della propria ordinazione sacerdotale.
Un abbraccio fraterno a don Stefano Mazzone e ai miei compagni di corso ai quali sono molto legato. La bellezza di avere amici, che siano sacerdoti o laici, che hanno condiviso con te sogni ma anche amarezze sta nel fatto che te li ritrovi presenti in tutti i momenti della tua vita.
Saluto e ringrazio tutte le autorità civili e militari presenti nonché i numerosi e qualificati rappresentanti della società civile perché hanno voluto onorare con la loro presenza le chiese in festa di Andria e di Avezzano. Ringrazio il sindaco di questa città che stasera ci ospita in questa bella piazza. Vorrei abbracciare uno per uno tutti voi carissimi fedeli di questa chiesa a me tanto cara, provenienti dalle parrocchie nonché dalle diverse realtà diocesane. Saluto in particolare i collaboratori della curia vescovile, la comunità del seminario, gli amici dell’AIMC, dell’UCID, del MEIC, dell’ufficio catechistico, della redazione del giornale Insieme, e della cara parrocchia Madonna della Grazia. E poi ancora gli amici del Rotary, i docenti, i compagni e gli alunni del liceo scientifico. Sono i luoghi dove ho reso un servizio in questi anni. Luoghi all’interno dei quali ci sono persone che, insieme a tante altre incontrate nel cammino della vita, mi hanno dato e continuano a darmi tanto affetto nonché la testimonianza di una grande passione per la Chiesa. L’immagine di questa piazza traboccante di volti amici assieme a tanti altri che sono rimasti a casa, me la porterò per sempre nel mio cuore.
E nel mio cuore dal 23 luglio scorso sono entrati i presbiteri, i religiosi, le religiose, i diaconi e i fedeli della diocesi dei Marsi. Sono contento che il Signore mi abbia chiamato a servire questa terra di Abruzzo e ho il vivo desiderio di incrociare presto i vostri volti. Impareremo a conoscerci e a condividere i doni del Signore. Prendendo in prestito le parole di don Primo Mazzolari vi dico che non ho né oro, né argento da distribuirvi né intelligenza tanta per farvi sapienti. Altri vi insegneranno a farvi ricchi e a crescere nell’intelligenza. Io vengo da voi per divenire buono insieme a voi. Essere buoni è tutto. Amare è tutto. È l’unica vera felicità. «Chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo la troverà». Solo una vita donata è una vita trovata, degna cioè di essere vissuta. La ricchezza passa, la giovinezza pure, la bellezza appassisce, solo l’amore rimane nella vita e nella morte. Vi chiedo il favore di accogliermi in semplicità, così come sono, con fede e con il cuore. So bene che la Marsica è una terra bella, abitata da un popolo buono, accogliente, che vuole bene al proprio vescovo. Alla mia mamma dico pertanto di stare tranquilla perché io vado in buone mani.
Ringrazio infine Dio per le numerose persone che si sono impegnate, con generosità, dedizione e sacrificio nella preparazione di questa celebrazione. Grazie alle autorità civili, al Comune di Andria, alle forze dell’ordine che in questo tempo di pandemia ci hanno consentito di avere una celebrazione così ordinata e in sicurezza. Un grazie speciale al comitato organizzatore, a don Vito Zinfollino, all’ingegnere Gianfranco Cannone a tutti i collaboratori e volontari per la complessa macchina organizzativa. Siete stati tutti molto bravi. Ringrazio i gestori degli esercizi commerciali presenti in questa piazza per la preziosa collaborazione.
Speciale gratitudine va anche all’ufficio liturgico, ai cerimonieri don Gianni Agresti e don Nicola De Ruvo, ai musicisti, al bravissimo coro diocesano, ai seminaristi, per il perfetto svolgimento di questa celebrazione.
Affido il mio nuovo ministero alla Vergine Maria. Nella mia storia vocazionale ha avuto un ruolo importante perché come ho avuto modo di affermare in altre circostanze io sono nato in pericolo di vita e il mio papà si recò al santuario della Madonna dei Miracoli, patrona di questa diocesi, chiedendole la grazia di mantenermi in vita e promettendole che avrebbe accettato con docilità, qualsiasi vocazione da parte di Dio su di me. La Madonna ha preso sul serio quella promessa e se sono presbitero, e da stasera anche vescovo, la Vergine Maria ha di certo messo del suo. E non è di certo casuale che sia stato convocato a Roma, per ricevere la nomina di papa Francesco, il 16 luglio scorso, giorno in cui celebriamo la festa della Madonna del Carmine, venerata in questa diocesi, presso il seminario vescovile e pertanto tanto cara in particolare a tutti noi sacerdoti. Sono segni semplici che mi dicono che la Madonna mi accompagnerà nel mio cammino e chiedo anche a voi di accompagnarmi con la vostra preghiera e il vostro affetto perché io sia un vescovo buono, umile e gioioso. Vi abbraccio con tanto affetto e che il buon Dio ci benedica tutti.

 

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
ai funerali dei quattro escursionisti morti sul Velino
Valeria Mella, Gianmarco Degni, Gian Mauro Frabotta e Tonino Durante

Valeria, Giammarco, Gian Mauro, Tonino, qui nella nostra chiesa, chiesa madre dei Marsi, ci siamo tutti. Ci siamo tutti. Ci sono i vostri genitori, i vostri familiari con il cuore attraversato dal dolore. Ci sono le istituzioni che hanno vissuto con sofferta responsabilità i giorni dello smarrimento. Ci sono le forze dell’ordine, le donne e gli uomini del soccorso: una catena straordinaria di impegno, di professionalità e di abnegazione. Ci sono i vostri amici, quanti hanno accompagnato le vostre relazioni più personali nel tempo che avete attraversato. Ma c’è qui tutto il popolo di Avezzano, c’è il popolo dell’intera Marsica che vi ha adottati come figli, come fratelli e sorelle. Vi ha adottati come una terra antica, ma sempre capace, come nessun’altra terra, di avere un’anima di passioni alte mai spente. Dove la sofferenza di uno è la sofferenza di tutti, le speranze di uno sono le speranze di tutti. La Marsica, fiera del suo creato di struggente bellezza che solo chi è capace di stupore e di meraviglia può cogliere. E voi, Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino siete stati cercatori di meraviglia e di bellezza lungo i sentieri del Velino. E per quel mistero che nessuna spiegazione umana potrà mai cogliere, e mai coglierà nelle sue profondità, non vi siete fermati, ma avete continuato il viaggio verso il tempo senza confini dell’eternità, lungo i sentieri infiniti dell’eternità.
Carissimi tutti, ci sono e ci saranno le spiegazioni della scienza sulle dinamiche dell’evento, ma rimangono lancinanti i nostri «Perché?». E non abbiamo paura di rivolgere al Signore i nostri «Perché?», le nostre domande. Non abbiamo paura di domandare: «Perché, Signore?». La fede è sempre domanda, è sempre inquietudine del cuore e non c’è risposta tascabile ai nostri perché. Non c’è. Oggi siamo avvolti da un velo che ci separa dalla verità nascosta, ma quando, come annunciano le scritture ci sarà tolto il velo dalla conoscenza, e vedremo Dio faccia a faccia, allora capiremo e capiremo tutti il perché di queste morti e il perché di tutto il dolore innocente che attraversa la terra. Ma una verità già esiste ed emerge dalla croce: sulla croce c’è il senso di tutto. Sulla croce Dio ha accettato e scelto il dolore per redimere l’umanità. La croce come suprema cattedra dell’amore che salva. Così in ogni sofferenza è Cristo che soffre, in ogni crocifisso nella morte è Cristo crocifisso. Ma è anche vero che in ogni volto crocifisso nella morte è già stampato il volto della vita senza fine, il volto di Cristo risorto.
La risurrezione non è soltanto la suprema e consolante certezza della nostra fede, è una forza, una forza che agisce in noi e attraverso di noi nel tempo che ci è dato. Un tempo che vede in tanti l’eclisse di Dio sul senso ultimo della vita, sul senso legato alla speranza di una luce mai spenta che splende nelle parole di Gesù «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà in eterno». Una luce che siamo chiamati a trasmettere nella volontà di essere costruttori di una terra, e di una società, dove la cura dell’altro e la custodia dell’altro è l’orizzonte di ognuno e di tutti. Ma questo è faticoso. Questo costa. Costa un prezzo sul piano personale e sul piano dei gesti concreti, perché porta a superare tre atteggiamenti oscuri. Il primo, il cinismo del pensiero. Non esiste una terra nostra ma soltanto il mio piccolo perimetro recintato e sbarrato. Il secondo, l’assenza del pensiero ideale. L’assenza di una ragione per vivere e morire. Tutto diventa interesse personale, tutto diventa maschera e mercato. Il terzo, la nebbia del puntare il dito. La nebbia che porta al non ascoltare le ragioni dell’altro e frantuma le parole della misericordia.
Ci è chiesto di non essere miopi, ma di vedere e di camminare con il vangelo nel cuore e nelle mani, perché il vangelo è la mappa che indica l’orizzonte ultimo e fa entrare l’orizzonte ultimo dentro il nostro oggi frammentato. Ci è chiesto di essere donne e uomini che hanno in mano il sacchetto della vita e non metteremo sassi nel sacchetto ma il pane della fraternità. Qualcuno dirà: «Ma questo è un sogno?». Sì, è il sogno di Dio su di noi. Poi è sempre vero che se è il sogno di uno resterà tale, ma se è il sogno di un popolo diventerà sempre realtà.
Carissimi, le anime di Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino sono vive. Vive nel centro dell’eternità, là dove il Padre e il Figlio sono l’uno accanto all’altro nell’intimità dello Spirito. In quel centro, alziamo gli occhi, è anche la nostra patria. E le loro anime ci parlano, e noi chiediamo loro di parlarci. Esse chiedono il dono dell’ascolto, facendo tacere ogni rumore dentro di noi. Ci parlano le loro anime, parlano ai genitori e ai loro familiari di gratitudine, di tenerezza e di amore. Devono parlare anche al nostro cuore. Che cosa ci dicono? Ci dicono di lasciarci avvolgere dal soffio dell’eternità, perché avvertire il soffio dell’eternità porta ad assumere il tempo della storia e il tempo dell’eternità, nella responsabilità di costruire l’umano nella luce senza ombra della Gerusalemme celeste, nella città senza divisori e senza mura. Quell’umano fatto di relazioni strappate ai calcoli dell’indifferenza, all’ingordigia dell’io restituito al noi insieme. Quell’insieme che è anche la cifra della loro morte e del nostro esser qui a celebrare questa santa liturgia. I nostri defunti insieme sono saliti su Velino, insieme sono stati travolti e insieme li collochiamo sull’altare.
Sulla tomba dei miei genitori ho voluto che si scrivesse semplicemente: «Ci rivedremo». Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino, ci rivedremo. Ci rivedremo quando ognuno di noi cesserà di essere un mendicante di luce e finalmente, tolto l’ultimo velo, comprenderemo pienamente e per sempre chi siamo.
In primavera, lungo valle Majelama e sotto il colle del Bicchero, si scioglierà la neve e spunteranno i fiori delle alture. E ora il vostro fratello vescovo vi affida una piccola parabola. Quanti torneranno a salire sul Velino potranno e dovranno guardare quei fiori e portare al cuore i vostri occhi, i vostri occhi sorridenti, quelli che abbiamo tante volte visto nei lunghi giorni dell’attesa, e potranno guardarli dentro la vertigine del mistero più grande che ci porta a dire: siamo tutti incubati durante l’inverno, cresciuti nell’estate e nell’autunno della vita terrena e destinati ad essere trapiantati, fiori sempre verdi, nei cieli nuovi e nella terra nuova.
E allora di nuovo, Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino, ci rivedremo.

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Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa di San Giovanni Battista in Luco dei Marsi

«Fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri». L’invocazione del salmo ha sempre accompagnato e accompagna le strade di quanti non attraversano la vita come vuoti a perdere ma si interrogano e cercano di entrare dentro il sogno che Dio ha pensato per loro.
Caro Umberto, rileggendo quanto mi hai scritto nella lettera di richiesta al diaconato e conoscendo i percorsi della tua ricerca vocazionale, posso affermare che il tuo è stato intensamente un cammino interiore di interrogazione, di ricerca di una casa dove scrivere la tua storia. Non a caso uso parole come storia e casa perché sono tue parole. Come queste: «Dio si è ricordato di me – hai scritto – e ha trovato modo per parlare al mio cuore. E davanti al Crocifisso, ricevendo la grazia di comprendere la mia chiamata vocazionale, ho capito che questa chiamata è servire la Chiesa nel sacerdozio».
E il tuo prossimo servizio diaconale tu lo guardi, con profondità di sguardo, come scelta, di «imitare nostro Signore povero, umile e casto e portando a tutti il lieto annuncio del vangelo nella convinzione che il luogo privilegiato dove esercitare il mistero del diaconato è tra gli ultimi e i poveri». Quando si viene assunti dallo Spirito in un ministero ecclesiale e sacramentale accade che si intrecci la propria storia personale con la storia di Giona: «Alzati, va’ a Ninive e annuncia loro quanto ti dico» e con la storia che si allarga lungo il mare di Galilea. Gesù incrocia gli occhi di Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini» e subito lasciarono le reti, il padre i garzoni e andarono dietro a lui. Tante storie ma un’unica storia che riaccade.
Umberto, questa sera lasciati di nuovo invadere e avvolgere dagli occhi di Cristo, lasciati avvolgere dal desiderio della missione. Alzati e va’! Annuncia! I tuoi passi seguano i passi di Cristo e il tuo cuore batta con il cuore di Cristo. Ora ti chiedo, e chiedo a tutti, di leggere la realtà, anche se ogni lettura è sempre parziale, è sempre riduttiva e non copre mai i misteriosi sentieri segreti dell’anima. In tutto l’occidente nella trasmissione della fede ci si affida sempre di più ad una religiosità fai da te. Si ricorre alla Chiesa soltanto nei momenti clou dell’esistenza: il bisogno religioso è avvertito più come un sentimento che come un’esperienza, la pratica religiosa è diminuita.
Il dramma della pandemia ha evidenziato quanto già da tempo si stava rimodulando nelle nostre comunità, anche se le nostre comunità restano ancora sociologicamente cattoliche. La pandemia ha svuotato le chiese, è un dato di fatto, ma ha fatto emergere quello che già gradualmente stava accadendo. E così oggi la parola missione, una parola straordinaria esce dalla retorica delle semplici citazioni estetiche o da strategie di marketing pastorale e deve prendere altri orizzonti. Orizzonti affidati alla passione di chi è chiamato e ha scelto di evangelizzare. Si incarna, deve incarnarsi, in credenti che fanno passare Dio attraverso la loro vita, le loro scelte, in credenti che diventano santi della porta accanto. Santi, narrazioni viventi del vangelo.
Un non credente inquieto ha scritto recentemente in maniera provocatoria: «Ma dove si è nascosto Dio? Ormai non lo trovi più in giro, non lo trovi nella vita della gente, non lo trovi nel pensiero. La scomparsa di Dio ci lascia al buio con il cerino in mano. La scomparsa di Dio ha fatto proliferare una miriade di supplenti e di surrogati. La libertà assoluta dell’io al posto di Dio». Alla domanda «Dove si è nascosto Dio?», domanda provocatoria, c’è la risposta. E la riposta deve essere: «Ecco, Dio cammina con quel credente che si dice cristiano, cammina con lui perché ha scelto di appartenere a Cristo e lo rende presente con la vita che fa la differenza, fa la differenza nella società e fa la differenza nella Chiesa». E così, la dimensione della missione oggi, per te diacono e domani per te sacerdote, è sempre di più un viaggio lungo la strada. È il tuo cuore innamorato di Cristo che deve accendere luci di speranza lungo le strade sempre più prive di segnaletiche di verità. Il diacono, il sacerdote è nella sua essenzialità il servitore della missione della Chiesa non un viaggiatore solitario.
E così mi è caro offrire a te e a tutti il senso dinamico, quasi profondo, della missione oggi, affidandomi non a una pagina teologica ma ad una pagina letteraria, ad un piccolo intenso libro di uno scrittore scandinavo. Il titolo è Il pastore d’Islanda. È la storia di un contadino, Benedikt, che nel cuore dell’inverno si mette in viaggio, lascia i suoi ripari e va verso la montagna. Per fare cosa? Per trovare le pecore disperse durante l’autunno. Ed è scritto: «Ma dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia e il coraggio di cercarle e di riportarle a casa, ma erano per sempre esseri viventi e Benedict aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi». Desidero riavvolgere questa pagina per te dandovi e dandoti tre brevi consegne.
La prima. Annuncia la parola di Dio nella sua radicalità, nella sua bellezza di gioia e di speranza, non annunciare mai la parola di Dio al ribasso, abbassando l’asticella. E sempre incarnata nelle sofferenze e nelle attese della gente. Una parola sempre per il popolo e in mezzo al popolo. Sappiamo tutti che molti libri biblici sono stati scritti per ispirazione di Dio nel tempo di Babilonia, quando il popolo aveva perso i suoi codici e in questa chiave ha ripensato la sua storia e il suo destino.
Seconda consegna. Non lasciare che nessuno spenga in te l’amore a Cristo, a Cristo stampato nella storia delle donne e degli uomini del nostro tempo, della nostra Chiesa locale. Ama donando il tuo tempo senza rivolerlo mai indietro, senza mai dire che esiste un tempo per me e un tempo per Cristo: c’è un unico tempo, un unico tempo senza supplementari.
Terzo. Facendo eco a quanto hai scritto, scegli sin da ora la cura dei poveri, sceglilo dentro di te. La cura degli ultimi, anche attraverso il tempo e le modalità che la Chiesa ti affiderà e ti affida. È un’opzione la cura dei poveri, è un’opzione fondamentale, è una grazia la cura del povero. Avvolgere il povero con la stola, con la dalmatica, con la casula vuol dire avvolgere di risurrezione il Crocifisso e i crocifissi.
La Vergine santissima, tua Madre e nostra Madre, ti doni il coraggio del «per sempre», il per sempre della missione, il per sempre dell’amore, il per sempre in Cristo e per Cristo, il per sempre nella Chiesa e per la Chiesa.


Foto di Angelo Iacobucci

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa di Santa Maria in Cese di Avezzano

Oggi, giornata mondiale dei poveri. E c’è una domanda che rivolgo a me e a tutti voi. La domanda è questa: quanto vale la vita di un uomo? quanto vale la vita di una donna? Quanto vale?
Quanto vale la vita di un uomo che ha perso il lavoro? Quanto vale la vita di un uomo morto mentre lavora? Quanto vale la vita di un uomo vittima dell’usura? Quanto la vale la vita di un uomo senza tutela, che non ha un tetto, non ha una casa? Quanto vale la vita di una donna rifiutata, tradita, oltraggiata della sua dignità? Quanto vale la vita di una persona sola, malata? Quanto vale la vita di una persona scartata, non ritenuta idonea dal cosiddetto ciclo produttivo? Quanto vale la vita di una persona contagiata dal virus? Quanto vale la vita di un bambino di sei mesi, morto nel naufragio del suo gommone? Si chiamava Joseph. Quanto valgono le lacrime di sua madre che grida «Ho perso il mio bambino!»? Grida verso il mare che ha inghiottito altri migranti, gli ultimi di una tragedia indicibile.
Ma quanto vale la vita di un uomo e di una donna per me cristiano? Per noi cristiani che continuiamo a dire e a credere che «Ogni persona, anche quella più indigente e disprezzata, porti impressa in sé l’immagine di Dio» (papa Francesco)?
Carissimi, c’è una diffusa narcosi dell’anima. E nel tempo di questa diffusa narcosi dell’anima, nel tempo del dolore cosmico, porci queste domande, colloca la nostra fede in ascolto della storia, pianta il vangelo dentro la carne della storia e allontana noi cristiani da un vangelo contraffatto e ci inchioda all’appello del Siracide: «Al povero tendi la tua mano» (7,32) e alle parole di papa Francesco: «Tendere la mano è un segno che richiama immediatamente alla prossimità, alla solidarietà, all’amore, non possiamo sentirci a posto quando un membro della famiglia umana è relegato nelle retrovie e diventa un’ombra». E il papa continua: «in questi mesi, nei quali il mondo intero è stato come sopraffatto da un virus che ha portato dolore e morte, sconforto e smarrimento, quante mani tese abbiamo potuto vedere! La mano tesa del medico che si preoccupa di ogni paziente cercando di trovare il rimedio giusto. La mano tesa dell’infermiera e dell’infermiere che, ben oltre i loro orari di lavoro, rimangono ad accudire i malati. La mano tesa di chi lavora nell’amministrazione e procura i mezzi per salvare quante più vite possibile. La mano tesa del farmacista esposto a tante richieste in un rischioso contatto con la gente. La mano tesa del sacerdote che benedice con lo strazio nel cuore. La mano tesa del volontario che soccorre chi vive per strada e quanti, pur avendo un tetto, non hanno da mangiare. La mano tesa di uomini e donne che lavorano per offrire servizi essenziali e sicurezza. E altre mani tese potremmo ancora descrivere fino a comporre una litania di opere di bene. Tutte queste mani hanno sfidato il contagio e la paura pur di dare sostegno e consolazione».
Carissimi, usciamo anche noi dalla zona grigia dell’indifferenza, del «Mi faccio i fatti miei». Usciamo! Torniamo a vedere i poveri. Portiamo i poveri nel cuore e dal cuore tendiamo le mani, dal cuore affogato nel vangelo, in un vangelo non contraffatto. Dagli occhi al cuore, dal cuore alle mani. Occhi cuore e mani collegate. Gli occhi per cambiare direzione ai nostri sguardi. Non più e non solo diretti alla nostra immagine, ma a chi porta come me, come noi, lo stampo del volto di Gesù. Il cuore, per liberarlo dal peccato delle passioni tristi e dilatarlo alla commozione dinanzi a chi soffre. Ma oggi, chi è ancora capace di piangere con chi piange? Chi è ancora capace?
E poi le mani. Le mani per i gesti concreti, di condivisione, di generosità. Le mani. Come ho scritto in una preghiera per l’Azione cattolica diocesana: «Le mani accanto, non distanti». È sempre una questione di mani. Da una parte mani che maneggiano talenti e rubano, speculano, accumulano denaro disonesto. Mani che spacciano e seminano morte e distruzione. Dall’altra parte mani tese, non mani in tasca. Tese a rendere sempre presente la mano evangelica del samaritano. Dove voglio collocare le mie mani, su quale versante? Dove vogliamo collocare le nostre mani? su quale versante?
Desidero in questa celebrazione, con particolare affetto, portare sull’altare e al cuore di Gesù tutti i nostri anziani, tutti i nostri nonni, soprattutto quanti hanno perso gli affetti più cari, quanti attraversano la malattia e la paura del futuro. A loro mi rivolgo, con un abbraccio intenso, anziano io stesso. A loro dico le parole del Siracide: «Non ti smarrire nel tempo della prova. Stai unito a Dio senza separartene. Affidati a lui ed egli ti aiuterà, raddrizza le tue vie e spera in lui» (Sir 2,2-3.6).
E torno alla domanda iniziale. Quanto vale la vita di un anziano? Quanto vale? Vale come può valere uno scrigno prezioso che raccoglie tutte le lettere dell’alfabeto. Un alfabeto che nel tempo ha composto la grammatica dell’esistenza. La grammatica della generazione del lavoro faticoso, dell’educazione, e che continua a generare e ad educare con gli occhi che bucano l’eternità. Abbiamo bisogno degli anziani come abbiamo bisogno delle nostre carte d’identità; strappare una carta d’identità è strappare l’orizzonte. Essere accanto agli anziani non ci fa sentire poveri orfani, orfani di speranza ma tutti figli e fratelli di una famiglia senza confini.
Ho voluto celebrare la giornata mondiale dei poveri qui a Cese, dinanzi alla splendida immagine della Vergine santissima. Ci accompagnino le parole di papa Francesco: «In questo cammino di incontro quotidiano con i poveri, ci accompagni la Madre di Dio, che più di ogni altra è la Madre dei poveri. La Vergine Maria conosce da vicino le difficoltà e le sofferenze di quanti sono emarginati, perché Lei stessa si è trovata a dare alla luce il Figlio di Dio in una stalla. Per la minaccia di Erode, con Giuseppe suo sposo e il piccolo Gesù, è fuggita in un altro paese. La condizione di profughi ha segnato per alcuni anni la santa famiglia. Possa la preghiera alla Madre dei poveri accumunare questi suoi figli prediletti e quanti li servono nel nome di Cristo. La preghiera trasformi la mano tesa in un abbraccio di condivisione e di fraternità ritrovata».
Abbraccio tutti gli anziani e i poveri della nostra terra. Ci uniamo tutti insieme, assemblea liturgica e quanti ci seguono sulle piattaforme digitali, con la preghiera dell’abbandono e della fiducia:

Ave Maria, piena di grazia,
il Signore è con te.
Tu sei benedetta fra le donne
e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù.
Santa Maria, Madre di Dio,
prega per noi peccatori,
adesso e nell’ora della nostra morte.
Amen.


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