Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
nel primo anniversario della morte di Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino

La morte si configura sempre come un ladro che compie il furto dell’opera d’arte più preziosa, quella della vita. Sentiamo che la vita ci appartiene e che la morte non ha nessun posto nel nostro profondo desiderio di vita. Contro la morte noi lottiamo con tutte le nostre forze, e diventa ancor più difficile accettarla quando colpisce improvvisamente le persone che ami e che ti sono care. A distanza di un anno è certamente ancora molto grande il dolore di voi familiari e amici per la morte di Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino. E non ci sono parole umane in grado di alleviarlo. Noi siamo qui, comunità cristiana, autorità civili e militari, rappresentanti dei corpi civili e militari, associazioni di volontariato per condividere il vostro dolore. Siamo qui per dirvi che il vostro dolore è anche il nostro dolore, è il dolore di una città e della Marsica intera sempre capace, come nessun’altra terra, di avere un cuore generoso. Una terra abitata da un popolo forte e tenace che nei momenti più difficili sa ricompattarsi e far sentire calore e affetto. Non sentitevi soli, carissimi amici, sentitevi abbracciati da un’intera comunità che vi vuole bene e soffre con voi. Quanto ho desiderato, io personalmente, essere presente a questa celebrazione per portarvi tutto il mio affetto. Vi ho conosciuto solo questa mattina ma sin dal giorno in cui ho messo piede in questa terra ho colto il vostro dolore immenso. Sentitevi circondati non solo dal nostro affetto bensì in primo luogo dall’amore e dalla forza di Dio.
Dinanzi a eventi tragici e drammatici è forte la tentazione di chiudersi nel proprio dolore e prendere le distanze anche da Dio. Il brano del vangelo appena ascoltato ci mette in guardia da un peccato definito il più pericoloso di tutti. È il peccato contro lo Spirito Santo. «In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna» (Mc 3,28-29). E qual è questo peccato contro lo Spirito Santo così grave? È negare l’evidenza di Dio, la sua presenza, il suo amore. Nella pagina evangelica odierna Gesù viene scambiato per un indemoniato, mentre nel passo precedente i suoi parenti lo ritengono un pazzo. Anche noi, dinanzi a certi eventi drammatici della vita, rischiamo di non riconoscere più Dio come nostro compagno di viaggio, e di vederlo assente, distante da noi. La parola di Dio ci invita allora a non perdere la fiducia in Dio, la consapevolezza che lui ci è accanto.
Gesù è colui che ha vinto la morte non eliminandola ma affrontandola. E nel momento della morte anche lui ha avuto l’impressione di essere stato abbandonato da Dio: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). È il suo grido di dolore sulla croce.
È come se Gesù dicesse: «Sì, mi sento abbandonato, non percepisco la tua presenza, ma tu sei e tu rimani il mio Dio, e nelle tue mani io consegno la mia vita». Aveva circa trenta anni – più o meno l’età di Valeria, Gianmarco e Gian Mauro –, aveva fatto solo del bene come i nostri quattro amici, e anche lui ha conosciuto una morte prematura. Forse era necessario proprio questo affinché potesse davvero darci speranza. Ci avesse detto solo delle belle parole di consolazione, avremmo sempre potuto dire: «Sì, è vero, ma siamo noi uomini che dobbiamo morire e la morte è per noi una sconfitta irreparabile».
Solo un Dio inchiodato per amore sulla croce può dirci parole credibili anche di fronte alla morte; può garantire che la morte non è l’ultima parola pronunciata sulla nostra vita. La vittoria di Cristo sulla morte sta nella sua risurrezione. Credere nella risurrezione significa credere che la morte non è un salto nel buio bensì un passaggio da una vita ad un’altra vita: dalla vita terrena alla vita eterna. Cristo è risorto per dirci che non esiste la morte per chi ama. È l’amore che vince la morte. Il contrario della morte non è la vita, ma è l’amore. Credere nella risurrezione significa credere nell’amore. Cristo è risorto perché ha amato e lo ha fatto fino alla fine.
I nostri quattro amici hanno creduto e vissuto nell’amore. Non li ho conosciuti ma, vedendo le loro foto, leggendo e ascoltando le testimonianze di familiari e amici, ho capito che erano persone amabili con una grande voglia di vivere. E la loro vita, sebbene breve, è stata una vita riuscita, bella perché segnata dall’amore, dalla bellezza per il creato, per le alte vette. «Il bene genera bene», soleva dire Gian Mauro, e in tanti hanno beneficiato del suo bene; Valeria desiderava volare in Africa con il suo Gianmarco per aiutare i bambini meno fortunati; mentre Tonino, appassionato di alpinismo, nelle escursioni era generoso e attento con chiunque facesse parte della comitiva. I quattro amici non si accontentavano di una vita mediocre ed erano impegnati in più ambiti a fare del bene a tutti.
La loro capacità di amare è la garanzia della loro risurrezione. E il loro amore non è di certo venuto meno con la morte come non è venuto meno il vostro amore nei loro confronti. Un amore che ce li fa sentire ancora vivi e presenti. È infatti l’amore che ci consente di vivere le relazioni. Noi possiamo fisicamente stare 24 ore su 24 ore con una persona, se non c’è però amore non si crea una relazione. Ciò che crea la relazione è l’amore. È l’amore che unisce ora, forse ancora di più, Valeria a Gianmarco, è l’amore che tiene uniti i nostri quattro amici, intenti a esplorare le vette del paradiso. Ed è l’amore che, essendo più forte della morte, ci consente di vivere in relazione con i nostri fratelli defunti. Molto bello ciò che scrive sant’Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano ma sono ovunque noi siamo». Sì, Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino sono vivi in Dio e continuano a essere presenti nel cuore di tutti coloro che li amano.
A voi, genitori, familiari e amici, desidero chiedere un’ultima cosa: continuate a custodire dentro di voi l’amore e la stima per la vita. Ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno della vostra testimonianza proprio perché sappiamo quanto la vita vi abbia percosso, abbiamo bisogno che, nonostante tutto, voi diciate a noi che è giusto sperare, che non bisogna mai perdere la fiducia in Dio e nella sua presenza, che non bisogna mai perdere l’amore per la vita. Amen.

 

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
in occasione dell’apertura della fase diocesana del sinodo della Chiesa universale 2021/2023

Nel vangelo di Marco, dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù lungo il cammino verso Gerusalemme, è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio è Pietro che prende in disparte Gesù e lo rimprovera. Non sappiamo cosa gli abbia detto. Possiamo immaginarlo. Lo avrà rimproverato perché pensava più agli altri che a se stesso; lo avrà rimproverato perché non aveva calcolato bene le ripercussioni che la sua morte avrebbe avuto sugli stessi discepoli. Anche quando Gesù annuncia per la seconda volta la sua imminente passione, tutti i discepoli non comprendono e addirittura si mettono a discutere su chi tra loro fosse il più grande. Nel brano di questa XXIX domenica del tempo ordinario dell’anno B sono invece Giacomo e Giovanni che si mostrano distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli sono stati tra i primi discepoli, sono inoltre cugini di Gesù, in quanto la loro mamma probabilmente era la sorella di Maria, la madre di Gesù e per questo pensano di vantare dei privilegi. E allora si presentano a Gesù e gli dicono: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37).
È una pretesa, più che una domanda fatta da chi ragiona esattamente, come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano nella misura in cui possiamo ricavare dei vantaggi. Diversamente non servono a nulla. E spesso anche con Dio noi vantiamo pretese. Pretendiamo che faccia ciò che noi vogliamo. Desideriamo un Dio obbediente, che faccia la nostra volontà, sia garante delle nostre scelte. Questa richiesta da parte dei due fratelli suscita subito una reazione sdegnata negli altri.
Gesù non si inalbera con Giacomo e Giovanni ma convoca i discepoli attorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva. «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così!» (42-43). Attenzione! Gesù non dice: «Tra voi non sia così», facendo un augurio, ma: «Tra voi non è così!». Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone mai al di sopra. Gli altri opprimono: voi invece solleverete le persone. E poi Gesù continua dicendo: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (43-44). Gesù non nega il desiderio di essere grandi. Dietro ogni desiderio umano, anche il più storto, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma è la parte da non perdere. Si tratta di saper educare i desideri e incanalarli nella via corretta. Per diventare grandi, dice Gesù, bisogna divenire servi. Nella Chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle e basta!
L’ultima frase del vangelo è di capitale importanza: «Sono venuto per servire» (45).
È la più spiazzante definizione di Gesù Cristo. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano ascoltato nella prima lettura (Is 53,10-11). Essere servi non riguarda solo la comunità dei dodici ma riguarda soprattutto noi, la Chiesa di oggi. In particolare riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio sempre tentati di farlo divenire dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. Carissimi amici, sono qui da due settimane e il Signore mi ha chiamato a essere servo di questa comunità. Pregate per me, affinché mai possa trasformare il servizio in potere e mai gli interessi personali possano prevalere sul bene di questa comunità.
Come Gesù tutti noi siamo però chiamati a essere umili servi nelle mani di Dio. Nasce così la Chiesa identificata dal cardinal Martini come una «comunità che in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e interessate, esprime la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dal dialogo e dalla mutua accettazione».
Il sinodo della Chiesa universale, voluto fortemente da papa Francesco, e che oggi si apre in tutte le diocesi del mondo, non è finalizzato a fare un’altra Chiesa bensì una Chiesa diversa. Fare sinodo significa camminare insieme. Le parole chiave del sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione.
Comunione e missione esprimono la natura della Chiesa. Ma comunione e missione rischiano di restare termini astratti se non si coltiva una partecipazione vera da parte di tutti. Nella Chiesa tutti i battezzati sono protagonisti. Non è protagonista il vescovo bensì tutti e nessuno può essere considerato una semplice comparsa. «Uno dei nodi della Chiesa è il clericalismo che stacca il prete, il vescovo dalla gente e quando – ha affermato papa Francesco – il vescovo o il prete si staccano dalla gente diventano dei funzionari e non pastori».
Il sinodo avrà tre fasi: la prima è la fase diocesana che si apre oggi, il cui obiettivo è la consultazione del popolo di Dio la cui modalità sarà decisa e stabilita discutendo e lavorando insieme. I lavori inizieranno già martedì 19 ottobre avendo convocato presbiteri, diaconi e religiosi per vivere l’assemblea presbiterale.
Alla fase diocesana seguirà la fase sapienziale, nella quale i lavori saranno allargati a livello nazionale, e infine la fase profetica, con l’indicazione per la Chiesa universale di alcuni passi e scelte da mettere in atto.
Nella fase diocesana si tratta di porsi in ascolto all’interno delle parrocchie, delle comunità religiose, delle foranie, delle aggregazioni laicali e dei diversi organismi di partecipazione. Un vero incontro nasce sempre dall’ascolto. Ascolto della Parola di Dio insieme alle parole degli altri. Fare sinodo è scoprire che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente per suggerire percorsi e linguaggi nuovi.
In questa prima fase vogliamo imparare ad ascoltarci, vescovo, preti, diaconi, religiosi e laici, evitando risposte artificiali e superficiali. Lo Spirito chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni battezzato. Sono certo che più che attendersi ricette efficaci o miracoli dal documento finale, che pure auspichiamo concreto e coraggioso, sarà proprio questo percorso di ascolto del Signore e dei fratelli a farci sperimentare la bellezza dell’incontro, la bellezza della Chiesa.
In particolare sarà per la nostra Chiesa locale importante sperimentare la bellezza di sentirci fratelli tra noi presbiteri. Il primo dono che i presbiteri sono chiamati a offrire alla comunità cristiana non è una serie di iniziative o una somma di funzioni ma la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta, un servizio pastorale che sia segno credibile di una comunione non soltanto operativa ma cordialmente fraterna. Le divisioni e le frizioni tra noi presbiteri diventano presto divisioni e frizioni tra le diverse comunità parrocchiali. E questo non è bello!
Non si è presbiteri senza o a prescindere dal vescovo e dai confratelli. Del resto, l’esperienza insegna come la solitudine per un prete non stia nel fatto che, una volta chiusa la porta della canonica, non trovi nessuno accanto a sé, quanto piuttosto nella mancanza di comunione con i confratelli. Il presbiterio è il luogo dell’incontro, del dialogo, è il luogo per sperimentare la bellezza di essere preti.
Sarà, inoltre importante per la nostra comunità diocesana, camminare insieme tra le diverse realtà ecclesiali, superando un rigido campanilismo che rischia di immobilizzarci. Mi piace rileggere in senso ecclesiologico il comandamento biblico dell’«Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) in questo modo: «Ama la parrocchia altrui come la tua, l’aggregazione laicale altrui come la tua, la confraternita altrui come la tua». Le parrocchie e i vari organismi non sono chiamati a essere realtà isolate ma in profonda comunione tra loro.
Sarà importante valorizzare ulteriormente il laicato che in questa diocesi costituisce una risorsa importante. L’ora nella quale la splendida teoria sul laicato espresso dal concilio possa diventare un’autentica prassi ecclesiale va accelerata ora più che mai nel senso di cogliere l’intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società.
Dobbiamo solo evitare che il sinodo si riduca a un evento straordinario solo di facciata proprio come se si restasse a guardare una bella facciata di una Chiesa senza mai mettervi piede dentro.
Viviamo invece, carissimi fratelli e sorelle, questa occasione di incontro, ascolto e riflessione come un tempo di grazia che nella gioia del vangelo consente alla nostra Chiesa dei Marsi di essere chiesa sinodale cioè un luogo aperto, accogliente dove tutti si sentono a casa desiderosi di partecipare e sperimentare la bellezza di essere discepoli di Gesù.

 

Saluto di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla casa comunale di Avezzano
alle autorità civili e militari

Saluto tutti con riconoscenza e ringrazio il sindaco di Avezzano che, a nome anche degli altri sindaci e delle municipalità che comprendono tutto il territorio della diocesi, mi ha rivolto parole di benvenuto e di incoraggiamento nel giorno in cui ha inizio il mio ministero pastorale nella diocesi dei Marsi.
Saluto il sindaco di Andria, avv. Giovanna Bruno, che mi ha accompagnato. La sua presenza è come una consegna che unisce, a partire da oggi, le due comunità.
È significativo che uno dei primi incontri che il nuovo vescovo fa all’ingresso della sua diocesi sia con voi, gentili autorità civili e militari, espressione dell’accoglienza dell’intera popolazione.
Vi sono molto grato di questo momento, che per me non è un atto formale in quanto manifesta uno degli aspetti costitutivi della natura della Chiesa che abbraccia i battezzati, ma è aperta a tutti. Così come afferma il concilio Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (GS 1). La Chiesa è pertanto amica di ogni uomo e cerca la collaborazione con tutti per il bene dell’intera comunità umana.
La Chiesa, di certo, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, ma vi sono alcuni ambiti del bene comune nei quali comunità politica e comunità religiosa in certa misura si compenetrano. Questa coincidenza si verifica, sia perché le persone che compongono le due comunità sono le stesse, sia perché vi sono materie che coinvolgono insieme la missione della Chiesa, chiamata ad annunciare Gesù Cristo, e l’organizzazione laica dello Stato. Cattolici e laici sono infatti a pari titolo cittadini. Ciò spiega perché la comunità ecclesiale e la comunità politica, gelose ciascuna della propria autonomia e dovendo entrambe servire al bene comune, non possono non incontrarsi e interagire in spirito di leale collaborazione. Chiesa e Stato, afferma ancora il concilio, svolgono il loro servizio a vantaggio di tutti, in maniera tanto più efficace quanto meglio coltivano una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo.
I compiti a cui dobbiamo far fronte sono grandi, ulteriormente gravati dalle difficoltà causate dall’attuale situazione di emergenza sanitaria. Vogliamo aiutarci ad affrontarle e superarle con il comune desiderio di favorire condizioni di vita serene e oneste per tutti e di venire in aiuto a quanti si trovano in condizioni di bisogno. So di essere entrato in una terra abitata da gente buona e fecondata dal sudore di lavoratori onesti che hanno permesso lo sviluppo del territorio, senza riuscire tuttavia in molte zone a frenare l’emigrazione alla ricerca di un lavoro.
A voi donne e uomini impegnati in politica dico di non scoraggiarvi perché la coerenza paga sempre. Non lasciatevi cadere le braccia quando non vedete apprezzato il vostro impegno. La santità in vista di un avvenire migliore per tutti e non il facile consenso deve essere il fine del vostro impegno.
La celebrazione che ora ci prepariamo a vivere mentre invoca sulla mia persona la grazia necessaria per lo svolgimento del ministero episcopale in questa terra bella e ricca di tanti doni, estenda anche a voi la benedizione del Signore perché possiate assolvere sempre meglio le impegnative responsabilità che vi sono state affidate.
Buon cammino da percorrere insieme. Con voi il Signore benedica tutti e ciascuno delle nostre città e paesi.

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
alla santa Messa per l'inizio del ministero pastorale nella diocesi dei Marsi

Carissimi fratelli e sorelle della Chiesa dei Marsi, stiamo vivendo il nostro primo incontro e questo, non vi nascondo, mi riempie il cuore di gioia perché finalmente posso vedere la mia gente, contemplo quella porzione del popolo di Dio che mi è stata affidata. In tanti mi avete scritto, vi siete fatti sentire con una telefonata, un messaggio, una mail. Vi ringrazio di vero cuore. Sono appena entrato in questa terra, lontana dalla mia terra, è già mi sento a casa.
Saluto con affetto i presbiteri, i religiosi, i diaconi, le religiose, i seminaristi e i fedeli laici nonché quanti ci seguono da casa attraverso la televisione o la rete. Agli ammalati chiedo di unire la preghiera al sacrificio delle proprie sofferenze.
Saluto con sincera gratitudine i numerosi presbiteri e i fedeli giunti dalla mia cara diocesi di Andria che con mons. Luigi Renna, vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano ma originario della diocesi di Andria e il Sindaco della città di Andria, l’avv. Giovanna Bruno, sono qui venuti per accompagnarmi e condividere questo momento di festa.
Quanto amore ho sperimentato nella mia diocesi e quanto mi sono sentito circondato di affetto più che mai in questi giorni. In tanti incontrandomi mi avete detto: «Sono felice per te. Ho seguito la celebrazione di ordinazione episcopale e ho pianto per la gioia. Ti accompagnerò con la preghiera e ti porterò nel cuore!». Grazie.
Al vescovo Pietro che ha presieduto come pastore e servo questo popolo di Dio, va il mio grazie e quello della comunità ecclesiale che ha servito per quattordici anni. Le siamo grati, eccellenza, per tutto il bene che ha fatto e per il tanto lavoro profuso. Si senta abbracciato con lo stesso calore che lei ha dato a tutti.
Ringrazio il cardinal Petrocchi e gli arcivescovi e i vescovi che sono in Abruzzo e Molise per avermi accolto con entusiasmo nella grande famiglia della Conferenza episcopale abruzzese-molisana. Sono molto contento di camminare con voi in spirito di profonda e sincera comunione.
Carissimi sindaci e autorità civili e militari che mi avete salutato benevolmente e che ora siete presenti in questa assemblea, la vostra presenza dice la stima che avete per la Chiesa e vi ringrazio per il servizio a questo popolo che ci fa sentire in comunione di intenti.
Nel primo messaggio alla diocesi ho già aperto il mio animo descrivendovi i sentimenti che abitano il mio cuore sin da quando il nunzio mi ha comunicato la scelta del Santo Padre di nominarmi vescovo dei Marsi.
In primo luogo lo stupore per il coraggio che ancora una volta Dio ha avuto rivolgendo il suo sguardo misericordioso sulla mia povera persona. Non si diventa vescovi perché migliori degli altri bensì perché Dio è buono. A lui la mia lode e il mio ringraziamento.
Ogni chiamata è una manifestazione dell’amore di Dio che non conosce limiti e non esclude nessuno. Ecco perché ho vissuto il primo momento di questo pomeriggio presso il carcere di Avezzano e ho detto ai detenuti che «Gesù vi ama e vuole per voi un futuro migliore. Per Gesù cambiare è possibile. Non credete a chi vi sussurra: “Non puoi farcela”. Tutti abbiamo un orizzonte. Aprite le porte del cuore e guardatelo». E accanto allo stupore provo un senso di timore perché sono consapevole che il ministero che mi viene affidato è carico di responsabilità pastorali, spirituali e umane. Nella Chiesa i ministeri che vengono affidati non sono medaglie da esibire o gradini sui quali salire per guardare gli altri all’alto verso il basso, bensì servizi da vivere con grande senso di responsabilità. Mi rincuora la certezza che quando Dio chiama qualcuno al servizio apostolico lo rende idoneo, offrendogli la sua grazia e mi incoraggia il vostro entusiasmo nonché la vostra fiducia che ho avvertiti sin dal primo momento.
Vi chiedo di volermi bene così come sono, di essere clementi e misericordiosi dinanzi alle mie fragilità. Invito tutti, presbiteri, diaconi e laici a intessere subito tra di noi relazioni segnate dalla carità nella verità, avendo cura sin dall’inizio di rimanere lontani da uno stile relazionale offuscato dalla finzione e dall’adulazione. Costruiamo invece rapporti leali, rispettosi e franchi in un clima di amore sincero.
Ho avuto già modo di dirvi che non ho oro, né argento da distribuirvi, né intelligenza tanta per farvi sapienti. Io vengo qui per unirmi a voi e divenire buono insieme a voi.
La parola di Dio di questa domenica sottolinea che siamo stati creati da Dio con un grande desiderio di amare ed essere amati.
«Non è bene che l’uomo sia solo». È questa l’affermazione rivelatrice della verità profonda dell’essere umano, creato per uscire da sé stesso, per incontrare l’altro. L’essere umano è chiamato a entrare in relazione con le altre creature in una relazione di amore, di aiuto e di rispetto. La pandemia ci ha ulteriormente aiutati a prendere coscienza che la grande paura che ogni uomo si porta dentro è la paura della solitudine, la paura cioè di non avere accanto a sé qualcuno che lo ami e qualcuno da amare.
E l’essere il custode del giardino, con tutte le sue ricchezze e i suoi splendori, non gli basta. Nemmeno l’impegno di dare il nome agli animali, espressione dell’altissima dignità a cui Dio lo chiama, gli basta. Non lo appagano le cose materiali, né gli impegni, né l’affermazione personale. L’essere umano ha bisogno di altro. Ha bisogno di perdersi nell’amore. Solo una vita persa per amore di Cristo e dei fratelli, è una vita trovata. È questo il motto episcopale da me scelto. La vita si realizza donandola e si sviluppa effondendola.
E oggi il Signore mi affida questa Chiesa come sposa. Proprio la metafora vescovo-sposa ci aiuta a comprendere molto bene la natura della relazione tra il vescovo e la Chiesa locale a lui affidata. In particolare il vescovo, ricevendo l’anello durante l’ordinazione episcopale, si impegna a custodire la Chiesa, sposa di Cristo, nell’integrità della fede e nella purezza della vita, e i fedeli, baciando tale simbolo, salutano la Chiesa che è sposa e madre, impegnandosi ad amarla nel servizio e nella fedeltà.
Molti si sono chiesti: «Quale programma avrà il nuovo vescovo per la Chiesa a lui affidata?». In realtà non sono qui a dare un programma perché il programma si fa insieme, dal basso e con la gente.
Il cammino sinodale voluto, da papa Francesco, ci farà tanto bene. Pregare insieme, pensare insieme, discernere insieme e decidere insieme è una grazia unica, di cui oggi più che in altri momenti della storia, la Chiesa Italiana ha bisogno.
Da parte mia proverò a incarnare lo stile episcopale indicato dal concilio Vaticano II e attualizzato nell’insegnamento e nella testimonianza di papa Francesco che più volte ha sottolineato la necessità che i vescovi siano oggi uomini vicini a Dio e che con disponibilità reale siano capaci di essere vicini alla gente, soprattutto agli ultimi, e con amore di padri stiano accanto ai presbiteri.
La preghiera è il primo impegno pastorale di un vescovo per portare a Gesù le persone e le situazioni.
La prossimità con Dio porta i pastori a essere vicini alla gente e ai propri sacerdoti. Conoscere i propri sacerdoti costituisce il nucleo essenziale e irrinunciabile delle ragioni per cui un vescovo possa dirsi padre e un sacerdote possa sentirsi figlio.
In questi anni di servizio in diocesi come vicario generale ho ben appreso che la relazione tra il vescovo e i suoi preti è a beneficio di tutti e ha delle ricadute immediate nella qualità della vita della Chiesa diocesana e so bene quanto i sacerdoti abbiano bisogno di un pastore che li ami, li segua, li incoraggi perché siano stimolati amorevolmente a una vita donata.
Cari sacerdoti, non risparmiatevi e non abbiate mai paura di donarvi totalmente a Cristo e ai fratelli.
Oggi più che mai non ci è consentito essere sacerdoti mediocri o superficiali. La testimonianza di un sacerdozio vissuto bene, nobilita la Chiesa, suscita ammirazione nei fedeli ed è la migliore promozione vocazionale.
La paternità episcopale non è però misurata solo dalla generosità nel dare ai preti qualche pacca sulle spalle, bensì anche dalla libertà di compiere, quando è necessario a viso aperto, l’opera di misericordia della correzione fraterna.
Carissimi fedeli laici presenti nelle diverse aggregazioni laicali, confraternite e movimenti, so bene che siete una risorsa importante per la vita di questa diocesi e dei paesi o città in cui vivete. Ho molta fiducia in ciascuno di voi e confido nella vostra passione per il vangelo e nella disponibilità a seguire con gioia Gesù Cristo. Tutti insieme, presbiteri e laici, amiamo questa Chiesa e insieme prodighiamoci per farla crescere affinché sia sempre più santa.
Il mio ultimo pensiero va ai giovani, ai quali lei mons. Santoro ha dedicato tante energie. Una Chiesa che non parla ai giovani rischia di non parlare a nessuno. Cari giovani, la Chiesa ha bisogno del vostro slancio, delle vostre intuizioni, della vostra fede. Nel Sinodo dei giovani, un ragazzo delle isole Samoa ha detto che la Chiesa è una canoa, in cui gli anziani aiutano a mantenere la rotta interpretando la posizione delle stelle, e i giovani remano con forza immaginando ciò che li attende più in là.
Saliamo allora tutti sulla stessa canoa e insieme sotto l’impulso sempre nuovo dello Spirito Santo iniziamo il nostro viaggio. La Madonna di Pietraquaria ci preservi dalle onde della superbia e dagli scogli delle tribolazioni.
Buon cammino a tutti!

 

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