Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale di San Bartolomeo in Avezzano
per l'ordinazione presbiterale di Angelo Di Bucchianico

Festa della Cattedra di san Pietro, 22 febbraio 2022

La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti come comunità diocesana per unirci al canto di lode che don Angelo eleva al Signore per il dono del presbiterato. È un momento di grazia che vogliamo vivere con stupore e gratitudine. Saluto i familiari di Angelo, gli amici venuti dal suo paese d’origine, e tutti voi presbiteri, religiosi, religiose, diaconi, seminaristi e fedeli laici qui presenti.
La pagina evangelica (Mt 16,13-19) ci ha proposto un episodio che a noi tutti è abbastanza noto ma di una ricchezza inesauribile. Lasciamoci pertanto raggiungere dalla Parola ascoltata. Gesù va con i discepoli nei territori di Cesarea, la città fondata trenta anni prima dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande. E proprio là dove Cesare è venerato come divino, proprio in una città edificata in suo onore, ecco l’occasione per raggiungere i suoi discepoli e interrogarli.
Le domande di Gesù ci raggiungono spesso quando meno ce lo aspettiamo. È stato così anche per te, carissimo Angelo. Dopo un cammino con i frati minori, nel 1999 eri tornato alla tua vita di sempre impegnando il tuo tempo nel lavoro, in famiglia, con gli amici. Ma nel 2017, quando pensavi che ormai quella fiamma avvertita durante gli anni della tua maturità fosse spenta per sempre, ecco che il Signore si è rifatto prepotentemente vivo nella tua vita.
«La gente chi dice che io sia?», chiede Gesù ai discepoli. E i discepoli riferiscono che la gente pensa che Gesù sia un profeta, uno dei grandi profeti presenti nella memoria collettiva d’Israele. A questo punto la domanda arriva esplicita, diretta: «Ma voi, chi dite che io sia?». Una domanda chiara di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Prima di tutto c’è un «ma» avversativo. Come se Gesù dicesse: «Lasciamo ora perdere ciò che dice la gente, perché non si può credere per sentito dire. Voi che siete con me da anni, che cosa sono io per voi?».
In questa domanda è il cuore pulsante della fede: «Chi sono io per te?». Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni. La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: «Quanto conto io per te? Che importanza ho nella tua vita?». A Gesù non interessa avere informazioni su di sé, non ha bisogno di sapere se è più bravo degli altri maestri. Gesù vuole sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore.
La risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Cioè: «Tu sei la mia vita. È in te, dice Pietro a Gesù, che io ho trovato la vita». Carissimo Angelo, questa domanda Gesù l’ha posta a te, e l’ha posta ai consacrati qui presenti. Accogliere una chiamata significa dire a Gesù: «Tu sei la mia vita, tu sei il centro della mia vita». Stiamo attenti. Essere preti non necessariamente significa aver posto Cristo al centro della propria esistenza. È possibile che al posto di Cristo, al centro della nostra vita ci siano i nostri disegni e non necessariamente ambiziosi, i nostri capricci, i desideri di primeggiare. Quando il nostro cuore non è occupato da Cristo possiamo legarci al potere, al denaro o addirittura a forme pericolosissime di dipendenza come il gioco o l’alcol. Senza Cristo diventiamo mestieranti, preti mediocri che vivono senza entusiasmo e senza passione.
Non passi giorno, carissimo Angelo, senza porti questa domanda: «Quanto conta Cristo nella mia vita, nella consapevolezza che solo la preghiera ci aiuta a fare di Cristo il fondamento della nostra esistenza?». Alla base di tante crisi sacerdotali vi è una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore.
«Beato sei tu, Simone, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». È Gesù che prende l’iniziativa. Non è Pietro che si autocandida. La vocazione al sacerdozio è chiamata di Dio. Non è mai autoconvocazione.
Abbiamo ascoltato poco fa: «Reverendissimo padre, la santa madre Chiesa chiede che questo nostro fratello sia ordinato presbitero». La chiamata di Dio giunge a noi attraverso la Chiesa e se la madre Chiesa riconosce che un proprio figlio non è chiamato al sacerdozio è richiesta ugualmente docilità e obbedienza. Obbedire significa ricordarsi che nessuno può dirsi detentore della volontà di Dio e che essa va compresa solo attraverso il discernimento che la Chiesa ci aiuta a vivere.
«A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». La chiamata al sacerdozio, carissimo Angelo, è dono e impegno. Con l’ordinazione presbiterale ti vengono affidati degli impegni ben precisi, ti viene affidata una responsabilità nei confronti di una comunità. Non siamo preti per noi stessi, siamo preti perché ci viene affidato un popolo. Sei chiamato ad alimentare i sogni delle persone che ti vengono affidate, a indicare la via che porta alle mete più alte. Tante volte non ti capiranno; non ti preoccupare, vai avanti. Ci saranno infatti momenti in cui ti loderanno, ma verranno anche ore di ingratitudine e di rifiuto. La vicinanza con Gesù ci invita a non temere alcuna di queste ore non perché siamo forti bensì perché ci stringiamo a lui.
Ti confido che questa vicinanza al Signore è la mia vera forza nei momenti più bui. Il pastore deve sempre agire per il bene delle pecore, mai per ricevere consensi. Non può diventare prete chi ricerca consensi, e tanto meno vescovo. E per il bene tante volte del popolo affidato, si è costretti a dire di no e a risultare impopolari. Non fa niente. Un pastore che vuole accontentare tutti rischia di scontentare tutti. Questo l’ho imparato dal mio papà, sempre molto esigente nei miei confronti. Quando ero ragazzino non capivo tanti suoi dinieghi. Li ho compresi da grande e ora lo ringrazio. Quando concordai con il mio vescovo la data della mia ordinazione presbiterale, ventinove anni fa, corsi da lui per dargli la bella notizia. «Non so se essere felice – mi disse il mio papà – lo sarò nella misura in cui sarai un bravo prete, umile e generoso». Quando il mio papà dieci anni fa è morto, ho trovato nel suo portafoglio questa preghiera: «Dammi, o Signore, figli che abbiano conoscenza di te, guidali, ti prego, non sul facile cammino degli agi ma su quello delle asperità e dei cimenti. Dammi figli dal cuore puro e dagli alti ideali; figli che sappiano dominare se stessi prima di voler dominare gli altri. Falli umili, perché ricordino sempre la semplicità della vera grandezza; rendili generosi, perché solo l’amore conta nella vita e nell’eternità. Allora io, il padre, oserò dire sottovoce: Non ho vissuto invano».
Carissimo Angelo, ho apprezzato da subito in te l’umiltà e la generosità verso tutti, soprattutto verso chi è nel bisogno. È la mia prima ordinazione presbiterale e non avrei mai immaginato di ordinare un presbitero dopo pochi mesi dalla mia ordinazione episcopale, e per di più di età più grande della mia, a indicare che Dio è imprevedibile e che i suoi tempi non sono i nostri tempi. Tutto è grazia. Non immagini la mia grande gioia e profonda emozione.
Ritengo infine importante sottolineare che la tua ordinazione sacerdotale avvenga in un tempo ben preciso, segnato ancora da una situazione sanitaria incerta e non ancora del tutto superata, a indicare che il Signore ti chiama a fasciare le ferite degli uomini di oggi.
«Io vedo la Chiesa – ha affermato papa Francesco – come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite». E vieni inoltre ordinato nel pieno di un cammino sinodale, a indicare che il Signore ti chiama ad essere vicino ad ogni uomo e a saper camminare con tutti.
Vicinanza e compassione indicano uno stile ben preciso con cui il Signore ti chiede di vivere il tuo sacerdozio. Io sarò al tuo fianco come padre e fratello.
Buon cammino e tanti cari auguri.


 

 

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale in Avezzano
per la festa della pace

Domenica 30 gennaio, nella cattedrale di Avezzano, insieme al vescovo Giovanni Massaro si è celebrata la tradizionale festa della pace, momento di festa insieme e di preghiera, in particolare quest’anno per la situazione critica in Ucraina. Il tema della giornata ha ripreso quello del messaggio di papa Francesco per la 55ª giornata mondiale della pace, «Educazione, lavoro, dialogo tra le generazioni: strumenti per edificare una pace duratura». È stato un bellissimo pomeriggio di preghiera e testimonianze, promosso dalla Tavola della pace marsicana, alla quale aderiscono l’Agesci, la Caritas, Migrantes, la Pastorale giovanile, il Centro missionario, la Pastorale sociale e del lavoro, l’associazione Rindertimi, la Pastorale familiare e l’Azione cattolica. Un impegno, quello per la pace, che le associazioni e le realtà diocesane portano avanti da oltre venticinque anni. Tra le testimonianze quella di due ragazzi, Martina Moretti e Ibrahim Mzoughi, in servizio civile presso l’associazione Rindertimi, che hanno raccontato l’incontro in preparazione alla giornata della pace che si è tenuto il 24 gennaio presso il castello Orsini di Avezzano, per richiamare esigenze e prassi tra le generazioni sugli itinerari di salvaguardia della pace, dai tempi dell’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, fino agli attuali progetti di servizio civile. A seguire la testimonianza di Alfredo Chiantini, che ha raccontato l’esperienza del patto educativo globale, un’unione di intenti tra Azione cattolica e Agesci, una sfida comune che viene raccolta in diocesi dalle associazioni con il rinnovato impegno educativo mettendo al centro i ragazzi, o loro bisogni e i loro sogni. I ragazzi dell’Azione cattolica e dell’Agesci hanno poi posto sull’altare i salvadanai con le loro offerte raccolte per la costruzione di un orfanotrofio in Egitto. Ecco dunque il messaggio del vescovo dei Marsi, Giovanni Massaro, pronunciato in occasione della festa diocesana della pace.

Siamo qui, oggi pomeriggio, come comunità diocesana per invocare insieme il dono della pace. All’inizio avete ringraziato me e la mia presenza, in realtà sono io che voglio ringraziare voi per questa presenza così ricca e variegata che vede adulti, giovani e ragazzi. Ringrazio tutti i promotori e in modo particolare ringrazio i ragazzi dell’Azione cattolica e Agesci che hanno raccolto in questo mese i propri risparmi destinandoli per la costruzione di un orfanotrofio presso Il Cairo, capitale dell’Egitto. La pace si costruisce anche così, rinunciando a qualcosa di proprio rendendo felice chi è più bisognoso di noi. Sono ancora tanti i paesi in guerra: domenica scorsa, in particolare, il papa ci ha invitato a rivolgere il nostro sguardo a ciò che sta avvenendo ai confini tra Russia e Ucraina, laddove soffiano venti di guerra. La guerra non guarda in faccia a nessuno ed è una sconfitta per tutti. Chiediamo al Signore il dono della pace. Abbiamo provato tante volte e per tanti anni a risolvere i conflitti con le nostre forze e anche con le nostre armi, tanti momenti di ostilità e di oscurità, tanto sangue versato, tante vite spezzate, tante speranze seppellite, ma i nostri sforzi sono stati vani. Ora, Signore, aiutaci tu, donaci tu la pace, guidaci tu verso la pace. Facciamo tutti un minuto di silenzio, pensiamo ai paesi che sono in guerra e nel silenzio del nostro cuore chiediamo al Signore il dono della pace. [È seguito un minuto di silenzio]
Ma il brano evangelico ascoltato ci ha detto che ci sono anche conflitti tra di noi, quando sorgono incomprensioni, quando qualcuno ci fa del male, e noi per primi siamo chiamati a essere artigiani di pace. «La pace – afferma don Tonino Bello- non ha la vestaglia da camera ma lo zaino del viandante». Siamo chiamati a metterci in cammino per costruire la pace all’interno delle nostre case, delle nostre famiglie, dei nostri condomini, delle nostre comunità parrocchiali. Il brano evangelico (Mt 18,12-20) e il messaggio del papa ci dicono cosa mettere nello zaino per non cedere all’ira ed essere sempre, invece, uomini e donne di pace. La pagina evangelica ascoltata ci dice cosa fare nei confronti di un fratello che sbaglia, che ci fa del male e nei confronti del quale è molto forte la tentazione di umiliarlo, di fargli del male. Viene invece proposto un percorso ispirato alla gradualità, alla discrezione e al rispetto. Se tuo fratello – ci ha detto Gesù – commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. Il primo passo è quello di ammonire personalmente colui che ti ha fatto del male, senza l’imbarazzante coinvolgimento degli altri, senza sparlare di lui o sbandierare a tutti l’errore commesso. Ammonire non significa puntare il dito, significa invece ricordare. Correggere il fratello non significa accusarlo, ma aiutarlo a scoprire i suoi sbagli e aiutarlo ad evitarli. La correzione fraterna è una tensione amorosa, è un vegliare sull’altro per correggere i suoi errori. Uno sguardo amabile ci permette di non umiliare mai l’altro. Il primo strumento per costruire la pace – ci ricorda il papa nel messaggio della giornata mondiale della pace – è il dialogo. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento che stimolano e non umiliano, non disprezzano. Se tuo fratello sbaglia fai tu il primo passo, cercalo, dialoga, non chiuderti in un silenzio rancoroso. Di fronte all’errore altrui spesso ci si chiude in se stessi, si evita il dialogo e si favorisce la crescita di una violenza interiore che prima o poi diventa guerra, aggressività, che non serve a nulla. Chi ci ama ci sa rimproverare, chi non ci ama sa solo ferire. Noi distinguiamo molto bene chi ci rimprovera per umiliarci e chi ci rimprovera perché ci vuole bene. Lo capisce molto bene un figlio in casa, un alunno a scuola, ma anche un adulto. Dialogare – scrive ancora papa Francesco –, significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo vuol dire dissodare il terreno sterile del conflitto per coltivare i semi di una pace duratura e condivisa.
Se tuo fratello – aggiunge poi Gesù – non ti ascolta, il secondo passo da fare è quello di correggerlo alla presenza di due o tre testimoni e se neppure in questo caso vi ascolta, allora dillo alla comunità. Gesù ci dice di non desistere, di non demordere. E i testimoni servono, non per accusare, bensì per aiutare. L’insistenza sulla correzione che un percorso di pace è dettata dall’evitare che si possa cedere al rancore, all’odio, la correzione non è dunque solo per il bene del fratello che riceve correzione, ma anche per il bene di colui che la esercita. L’odio fa male, non ti consente di vivere in comunione, di camminare a testa alta, di andare avanti. Ti impedisce di guardare in faccia la persona che odi, di salutarla se la incontri per strada, ti rende cupo, ti fa vedere il male anche laddove non c’è. Ma la motivazione più profonda per costruire e vivere nella pace la ritroviamo nell’ultimo versetto del brano evangelico ascoltato: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Solo dove c’è pace c’è Dio, solo dove si fa comunità là Dio è presente. Dio è presente laddove c’è una comunità che, nonostante i limiti e gli errori, rimane unita. La pace ha la sua ragion d’essere nel fatto che possiamo fare esperienza di Dio solo se ci vogliamo bene, piccoli e grandi, giovani e adulti, laici e preti, favorendo quel dialogo intergenerazionale che, come sottolinea il Papa, consente di non irrigidirsi nelle proprie posizioni e di essere sempre fautori di pace. Vi auguro di cuore, carissimi amici, di essere, pertanto, artigiani di pace, ovunque voi andiate.

 

 

 

 

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa della Madonna del Passo in Avezzano
agli studenti

Carissimi ragazzi, è bello vedervi qui questa mattina, di buon’ora. Potevate dormire di più, approfittare per dare una ripassata alle lezioni di questa mattina. In realtà siete qui e sono molto contento, ringrazio tutti i promotori di questa lodevole iniziativa. Siete qui, in questo tempo così difficile; probabilmente voi ragazzi state pagando il prezzo più alto di questa pandemia. Vi sentite, giustamente, defraudati di un tempo che non vi verrà più restituito. So bene quanto importanti siano per voi gli abbracci, le relazioni, le amicizie. Le statistiche sono impietose, dicono che i giovani appaiono stanchi, demotivati, tristi, senza alcuna prospettiva per il futuro. In realtà voi potete essere gli artefici di un cambiamento, di un’inversione di tendenza. L’Unione europea ha proclamato il 2022 come l’anno europeo dei giovani. Non potete cedere allo scoraggiamento, nel buio è importante trovare la luce. La pagina evangelica appena ascoltata (Mc 4,21-25) ci parla di luce, di una lampada che non può essere nascosta sotto il letto ma va posta bene in evidenza per illuminare tutto ciò che sta intorno. E la luce è Gesù Cristo, che mai ci abbandona, soprattutto nei momenti più difficili e più bui della nostra vita.
Non vergognatevi mai di Gesù Cristo, non abbiate mai timore, non abbiate vergogna di dire ai vostri amici che andate a Messa e che volete bene a Gesù: siate sempre voi stessi. Io ho frequentato il liceo scientifico e mi ricordo che il mio professore di storia e filosofia era agnostico. Nella sua prima lezione chiese a noi alunni per quale motivo avessimo scelto quell’indirizzo scolastico. Ricordo che, con grande coraggio, io dissi subito che ero in seminario e che avevo scelto quell’indirizzo proprio per quello: stavo facendo un cammino di discernimento per capire se il Signore mi chiamava o meno al sacerdozio. Il professore, dopo la lezione, mi chiamò in disparte dicendo di aver apprezzato molto quella mia sincerità. Nella vita è importante saper essere sempre se stessi. Noi siamo chiamati a essere luce nei confronti dei nostri fratelli, e la luce non attira mai l’attenzione su di sé ma illumina tutto ciò che le sta attorno.
Quanto è bello poter incontrare nella nostra vita persone luminose, capaci di illuminarci e di tirar fuori il meglio che noi abbiamo. Pensate alle tante persone che vi vogliono bene, che valorizzano i vostri talenti, che sono capaci di dare colore ai vostri volti, di farvi sentire importanti. Pensate alle persone che vi danno fiducia… non sono gli idoli, i calciatori, gli attori, ma sono le persone che vi vivono accanto. Il compito di ogni educatore è proprio quello di aiutarvi a tirar fuori il bene che avete dentro. In questo anno particolare, anno sinodale, aiutateci a capire che cosa noi possiamo fare come Chiesa per essere più attenti a voi giovani, per essere più vicini alle vostre attese, ai vostri sogni.
In questo tempo buio voi giovani siete stati i più generosi, impegnandovi nel volontariato, nella Caritas. Sappiate amare, sappiate fare del bene, non siate mai ripiegati su voi stessi, sfruttate i talenti che avete per fare del bene a tutti, non fate i furbi dando il minimo. La pagina evangelica ci ha detto che con la misura con la quale misuriamo sarà poi misurato a noi. La vita ci dà sempre ciò che noi diamo agli altri. Ho celebrato recentemente l’anniversario di quattro amici che un anno fa sono morti sul Velino, tre di loro avevano meno di trent’anni. La loro vita, sebbene breve, è stata una vita bella, riuscita, perché segnata dall’amore. «Il bene genera bene», soleva dire Gian Mauro, e in tanti hanno beneficiato del suo bene; Valeria desiderava volare in Africa con il suo Gianmarco per aiutare i bambini meno fortunati; mentre Tonino, appassionato di alpinismo, nelle escursioni era generoso e attento con chiunque facesse parte della comitiva. La vita ha senso nella misura in cui viene donata.
Concludo con le parole di un professore, Pietro Carmina, morto qualche settimana fa, sotto le macerie di una palazzina crollata a seguito di una fuga di gas. Era andato in pensione da poco e aveva scritto una lettera ai suoi alunni. «Sono arrivato al capolinea e il magone più lancinante sta non tanto nell’essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. Un’ultima raccomandazione però sento di farvi, mentre il mio pullman si sta fermando: usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati al telefonino. Leggete, invece, viaggiate, siate curiosi, fate del bene, amate. Io mi fermo qui, a voi auguro buon viaggio».

 

Commento di padre Vasile Retegan
del servizio diocesano per la vita consacrata
alla giornata della vita consacrata del 1° febbraio 2022

Nella comunione di luce, per avviare percorsi di sinodalità

È nell’orizzonte di una intensa comunione di luce che si è celebrata, il 1° febbraio, nella chiesa cattedrale di Avezzano, la 26ª giornata mondiale della vita consacrata. La celebrazione, presieduta dal vescovo dei Marsi Giovanni Massaro, nella vigilia della festa della Presentazione di Gesù al tempio, ha permesso di radunarsi insieme i religiosi e le religiose operanti in diocesi, con la presenza graditissima, accanto a loro, di molti sacerdoti e fedeli laici, animati tutti dalla preghiera di gratitudine innalzata al Padre per il dono della vita consacrata. Con una preghiera specifica, formulata e predisposta dal vescovo, essi hanno rinnovato la consacrazione al Signore e al servizio della Chiesa, chiedendo anche che le comunità religiose «siano palestre di sinodalità e, secondo il carisma di ciascuna, partecipino attivamente al cammino sinodale della Chiesa».
Il lucernario, con la benedizione e l’accensione graduale delle candele, dalla luce del cero pasquale e delle lampade accese dei religiosi, consegnate dal vescovo alle loro comunità, ha tratteggiato un percorso di coinvolgimento comunionale, dal fonte battesimale fino all’altare del Signore, nel riconoscimento e nell’accoglienza di Cristo «luce che si rivela alle genti» (Lc 2,32), come ripetutamente ha cantato, accompagnando l’ingresso solenne della Messa, il coro della cattedrale. Per promuovere e valorizzare la vita consacrata, il vescovo Giovanni ha invitato i consacrati e le consacrate, nel consegnare loro le lampade del Sinodo, a essere nella Chiesa «segno e profezia della sublime sapienza di Cristo, che continua anche oggi a invitare tutti a procurarsi “in piccoli vasi”, cioè nella propria fragile condizione umana e precaria esistenza terrena, l’olio dello Spirito dell’amore, necessario affinché la fiamma della nostra fede sia sempre viva e ardente». Come pastore ha esortato le comunità religiose ad avviare percorsi concreti di sinodalità, offrendo il proprio prezioso contributo di testimonianza evangelica e camminando «in stretta comunione con la vita della Chiesa, la quale si declina sempre, con l’aiuto e la forza dello Spirito Santo, a immagine della santissima Trinità, per essere nel mondo “sacramento di intima unione con Dio e di unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium 1)».
Con magistero pastorale di alta spiritualità sono state delineate nell’omelia le dinamiche di un vero processo di trasformazione: dal «riconoscere che Gesù è la nostra luce», attraverso la necessità di «scrutare i segni dei tempi nella consapevolezza che a guidare il popolo di Dio è lo Spirito Santo», nell’attenzione, apertura alla novità dello Spirito e adesione alla sua azione che rende ciò che oggi è caos un vero kairos – tempo propizio di grazia –, la vita religiosa segnata dal buio e attanagliata da problemi in sorgente luminosa e feconda, mentre «la scarsità delle vocazioni induce a camminare maggiormente e più facilmente con gli altri in un autentico dinamismo sinodale». La luce si accresce e la comunione si rafforza quando «la vita è riempita dalla preghiera» e tocca l’intimità con Dio e le altezze della mistica: «Se ogni vita cristiana nasce dall’incontro con la persona di Gesù, la vita religiosa che ha un’origine profetica non può sorgere e prosperare senza una dimensione profondamente spirituale e mistica. Quando si ricordano i fondatori e le fondatrici ci si sorprende davanti alla loro grande ricchezza e profondità spirituale. La mistica è parte essenziale della vita religiosa. Questa non è possibile se non si è innamorati di Gesù Cristo e del vangelo. Il passaggio dal caos al kairos è possibile se ci apriamo allo Spirito, se camminiamo di più con la gente, stando maggiormente con i poveri, se impariamo a volerci più bene e soprattutto se amiamo Gesù e portiamo nel mondo il profumo del vangelo».

Sul versante della profezia, l’itinerario di trasformazione nella comunione di luce con Cristo, attraverso l’opera e la missione salvifica della Chiesa, è stato abbondantemente richiamato dal riflesso carismatico e luminoso delle testimonianze religiose. Suor Denise Kangabe, per conto della comunità alloggio minori delle Apostole del Sacro Cuore, ha mostrato come la vita consacrata diventa riflesso del volto paterno di Dio, attraverso forme di paternità e maternità vissute per amore, soprattutto verso i più piccoli. Suore, insegnanti in pensione, impegnate affinché i ragazzi affidati loro dai servizi sociali vivano in un clima il più possibile vicino a quello della famiglia che a loro manca tanto; affiancate da una équipe psicopedagogica cercano di accompagnare i ragazzi in ogni aspetto della vita: negli studi, nelle relazioni con i famigliari e con gli amici si adoperano perché la loro vita non sia differente da quella dei loro coetanei e che si proiettino nel futuro con progetti degni di essere realizzati.
Suor Carla Venditti della comunità Oasi Madre Clelia contro la tratta della strada ci ha fortemente sospinti a seguire Cristo sulla strada, luogo che Dio ci ha consegnato e dove incontriamo le nuove povertà; quelli che Gesù andava a cercare nelle strade, quelli che risollevava dalle macerie della vita, le tante Maria Maddalena del vangelo; tutti i bloccati dalle catene delle proprie insicurezze, del disprezzo e della indifferenza vissuti sulla propria pelle, ma che lui è venuto a liberare. Le ragazze vengono aiutate a cercare un lavoro che ridoni loro la dignità e la serenità a cui ogni essere umano ha diritto.
Per il diacono Paolo Muratore, fratello della comunità Mater indigentium, l’amore di Dio, più forte delle nostre fragilità, dona di vivere in una fraternità caratterizzata da sincerità, autenticità e franchezza verso se stessi e nelle relazioni interpersonali; il terreno del nostro essere accoglie il seme della parola di Dio e sperimentiamo una graduale e continua guarigione dal giudizio negativo di noi, che proiettiamo anche sul prossimo; la manifestazione concreta della misericordia del Padre predilige la fragilità e i limiti come luogo per incontrarci, sostenerci e guidarci; le nostre povertà umane, quando sappiamo offrirle a Dio con sincerità ed abbandono fiducioso, costituiscono come la culla della vocazione alla santità che ciascuno di noi ha ricevuto.
Infine, don Vittorio Quaranta ci ha illuminato sul carisma strettamente ecclesiale – a sostegno del papa, dei vescovi, della missione della Chiesa – che l’Opera Don Orione incarna anche nella nostra diocesi, soccorsa già nel terremoto del 1915 dallo stesso san Luigi Orione; nel passato con l’assistenza agli orfani e la formazione ai giovani mediante la scuola professionale; oggi è prevalentemente impegnata nell’assistenza dei tanti nonni della casa di riposo e della RSA per accompagnare la fase più fragile dell’anzianità e agevolare l’incontro con il Signore, per mostrare che ogni fase della vita è degna di essere vissuta.

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