Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale in Avezzano
per la festa della pace

Domenica 30 gennaio, nella cattedrale di Avezzano, insieme al vescovo Giovanni Massaro si è celebrata la tradizionale festa della pace, momento di festa insieme e di preghiera, in particolare quest’anno per la situazione critica in Ucraina. Il tema della giornata ha ripreso quello del messaggio di papa Francesco per la 55ª giornata mondiale della pace, «Educazione, lavoro, dialogo tra le generazioni: strumenti per edificare una pace duratura». È stato un bellissimo pomeriggio di preghiera e testimonianze, promosso dalla Tavola della pace marsicana, alla quale aderiscono l’Agesci, la Caritas, Migrantes, la Pastorale giovanile, il Centro missionario, la Pastorale sociale e del lavoro, l’associazione Rindertimi, la Pastorale familiare e l’Azione cattolica. Un impegno, quello per la pace, che le associazioni e le realtà diocesane portano avanti da oltre venticinque anni. Tra le testimonianze quella di due ragazzi, Martina Moretti e Ibrahim Mzoughi, in servizio civile presso l’associazione Rindertimi, che hanno raccontato l’incontro in preparazione alla giornata della pace che si è tenuto il 24 gennaio presso il castello Orsini di Avezzano, per richiamare esigenze e prassi tra le generazioni sugli itinerari di salvaguardia della pace, dai tempi dell’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, fino agli attuali progetti di servizio civile. A seguire la testimonianza di Alfredo Chiantini, che ha raccontato l’esperienza del patto educativo globale, un’unione di intenti tra Azione cattolica e Agesci, una sfida comune che viene raccolta in diocesi dalle associazioni con il rinnovato impegno educativo mettendo al centro i ragazzi, o loro bisogni e i loro sogni. I ragazzi dell’Azione cattolica e dell’Agesci hanno poi posto sull’altare i salvadanai con le loro offerte raccolte per la costruzione di un orfanotrofio in Egitto. Ecco dunque il messaggio del vescovo dei Marsi, Giovanni Massaro, pronunciato in occasione della festa diocesana della pace.

Siamo qui, oggi pomeriggio, come comunità diocesana per invocare insieme il dono della pace. All’inizio avete ringraziato me e la mia presenza, in realtà sono io che voglio ringraziare voi per questa presenza così ricca e variegata che vede adulti, giovani e ragazzi. Ringrazio tutti i promotori e in modo particolare ringrazio i ragazzi dell’Azione cattolica e Agesci che hanno raccolto in questo mese i propri risparmi destinandoli per la costruzione di un orfanotrofio presso Il Cairo, capitale dell’Egitto. La pace si costruisce anche così, rinunciando a qualcosa di proprio rendendo felice chi è più bisognoso di noi. Sono ancora tanti i paesi in guerra: domenica scorsa, in particolare, il papa ci ha invitato a rivolgere il nostro sguardo a ciò che sta avvenendo ai confini tra Russia e Ucraina, laddove soffiano venti di guerra. La guerra non guarda in faccia a nessuno ed è una sconfitta per tutti. Chiediamo al Signore il dono della pace. Abbiamo provato tante volte e per tanti anni a risolvere i conflitti con le nostre forze e anche con le nostre armi, tanti momenti di ostilità e di oscurità, tanto sangue versato, tante vite spezzate, tante speranze seppellite, ma i nostri sforzi sono stati vani. Ora, Signore, aiutaci tu, donaci tu la pace, guidaci tu verso la pace. Facciamo tutti un minuto di silenzio, pensiamo ai paesi che sono in guerra e nel silenzio del nostro cuore chiediamo al Signore il dono della pace. [È seguito un minuto di silenzio]
Ma il brano evangelico ascoltato ci ha detto che ci sono anche conflitti tra di noi, quando sorgono incomprensioni, quando qualcuno ci fa del male, e noi per primi siamo chiamati a essere artigiani di pace. «La pace – afferma don Tonino Bello- non ha la vestaglia da camera ma lo zaino del viandante». Siamo chiamati a metterci in cammino per costruire la pace all’interno delle nostre case, delle nostre famiglie, dei nostri condomini, delle nostre comunità parrocchiali. Il brano evangelico (Mt 18,12-20) e il messaggio del papa ci dicono cosa mettere nello zaino per non cedere all’ira ed essere sempre, invece, uomini e donne di pace. La pagina evangelica ascoltata ci dice cosa fare nei confronti di un fratello che sbaglia, che ci fa del male e nei confronti del quale è molto forte la tentazione di umiliarlo, di fargli del male. Viene invece proposto un percorso ispirato alla gradualità, alla discrezione e al rispetto. Se tuo fratello – ci ha detto Gesù – commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo. Il primo passo è quello di ammonire personalmente colui che ti ha fatto del male, senza l’imbarazzante coinvolgimento degli altri, senza sparlare di lui o sbandierare a tutti l’errore commesso. Ammonire non significa puntare il dito, significa invece ricordare. Correggere il fratello non significa accusarlo, ma aiutarlo a scoprire i suoi sbagli e aiutarlo ad evitarli. La correzione fraterna è una tensione amorosa, è un vegliare sull’altro per correggere i suoi errori. Uno sguardo amabile ci permette di non umiliare mai l’altro. Il primo strumento per costruire la pace – ci ricorda il papa nel messaggio della giornata mondiale della pace – è il dialogo. Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento che stimolano e non umiliano, non disprezzano. Se tuo fratello sbaglia fai tu il primo passo, cercalo, dialoga, non chiuderti in un silenzio rancoroso. Di fronte all’errore altrui spesso ci si chiude in se stessi, si evita il dialogo e si favorisce la crescita di una violenza interiore che prima o poi diventa guerra, aggressività, che non serve a nulla. Chi ci ama ci sa rimproverare, chi non ci ama sa solo ferire. Noi distinguiamo molto bene chi ci rimprovera per umiliarci e chi ci rimprovera perché ci vuole bene. Lo capisce molto bene un figlio in casa, un alunno a scuola, ma anche un adulto. Dialogare – scrive ancora papa Francesco –, significa ascoltarsi, confrontarsi, accordarsi e camminare insieme. Favorire tutto questo vuol dire dissodare il terreno sterile del conflitto per coltivare i semi di una pace duratura e condivisa.
Se tuo fratello – aggiunge poi Gesù – non ti ascolta, il secondo passo da fare è quello di correggerlo alla presenza di due o tre testimoni e se neppure in questo caso vi ascolta, allora dillo alla comunità. Gesù ci dice di non desistere, di non demordere. E i testimoni servono, non per accusare, bensì per aiutare. L’insistenza sulla correzione che un percorso di pace è dettata dall’evitare che si possa cedere al rancore, all’odio, la correzione non è dunque solo per il bene del fratello che riceve correzione, ma anche per il bene di colui che la esercita. L’odio fa male, non ti consente di vivere in comunione, di camminare a testa alta, di andare avanti. Ti impedisce di guardare in faccia la persona che odi, di salutarla se la incontri per strada, ti rende cupo, ti fa vedere il male anche laddove non c’è. Ma la motivazione più profonda per costruire e vivere nella pace la ritroviamo nell’ultimo versetto del brano evangelico ascoltato: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Solo dove c’è pace c’è Dio, solo dove si fa comunità là Dio è presente. Dio è presente laddove c’è una comunità che, nonostante i limiti e gli errori, rimane unita. La pace ha la sua ragion d’essere nel fatto che possiamo fare esperienza di Dio solo se ci vogliamo bene, piccoli e grandi, giovani e adulti, laici e preti, favorendo quel dialogo intergenerazionale che, come sottolinea il Papa, consente di non irrigidirsi nelle proprie posizioni e di essere sempre fautori di pace. Vi auguro di cuore, carissimi amici, di essere, pertanto, artigiani di pace, ovunque voi andiate.

 

 

 

 

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa della Madonna del Passo in Avezzano
agli studenti

Carissimi ragazzi, è bello vedervi qui questa mattina, di buon’ora. Potevate dormire di più, approfittare per dare una ripassata alle lezioni di questa mattina. In realtà siete qui e sono molto contento, ringrazio tutti i promotori di questa lodevole iniziativa. Siete qui, in questo tempo così difficile; probabilmente voi ragazzi state pagando il prezzo più alto di questa pandemia. Vi sentite, giustamente, defraudati di un tempo che non vi verrà più restituito. So bene quanto importanti siano per voi gli abbracci, le relazioni, le amicizie. Le statistiche sono impietose, dicono che i giovani appaiono stanchi, demotivati, tristi, senza alcuna prospettiva per il futuro. In realtà voi potete essere gli artefici di un cambiamento, di un’inversione di tendenza. L’Unione europea ha proclamato il 2022 come l’anno europeo dei giovani. Non potete cedere allo scoraggiamento, nel buio è importante trovare la luce. La pagina evangelica appena ascoltata (Mc 4,21-25) ci parla di luce, di una lampada che non può essere nascosta sotto il letto ma va posta bene in evidenza per illuminare tutto ciò che sta intorno. E la luce è Gesù Cristo, che mai ci abbandona, soprattutto nei momenti più difficili e più bui della nostra vita.
Non vergognatevi mai di Gesù Cristo, non abbiate mai timore, non abbiate vergogna di dire ai vostri amici che andate a Messa e che volete bene a Gesù: siate sempre voi stessi. Io ho frequentato il liceo scientifico e mi ricordo che il mio professore di storia e filosofia era agnostico. Nella sua prima lezione chiese a noi alunni per quale motivo avessimo scelto quell’indirizzo scolastico. Ricordo che, con grande coraggio, io dissi subito che ero in seminario e che avevo scelto quell’indirizzo proprio per quello: stavo facendo un cammino di discernimento per capire se il Signore mi chiamava o meno al sacerdozio. Il professore, dopo la lezione, mi chiamò in disparte dicendo di aver apprezzato molto quella mia sincerità. Nella vita è importante saper essere sempre se stessi. Noi siamo chiamati a essere luce nei confronti dei nostri fratelli, e la luce non attira mai l’attenzione su di sé ma illumina tutto ciò che le sta attorno.
Quanto è bello poter incontrare nella nostra vita persone luminose, capaci di illuminarci e di tirar fuori il meglio che noi abbiamo. Pensate alle tante persone che vi vogliono bene, che valorizzano i vostri talenti, che sono capaci di dare colore ai vostri volti, di farvi sentire importanti. Pensate alle persone che vi danno fiducia… non sono gli idoli, i calciatori, gli attori, ma sono le persone che vi vivono accanto. Il compito di ogni educatore è proprio quello di aiutarvi a tirar fuori il bene che avete dentro. In questo anno particolare, anno sinodale, aiutateci a capire che cosa noi possiamo fare come Chiesa per essere più attenti a voi giovani, per essere più vicini alle vostre attese, ai vostri sogni.
In questo tempo buio voi giovani siete stati i più generosi, impegnandovi nel volontariato, nella Caritas. Sappiate amare, sappiate fare del bene, non siate mai ripiegati su voi stessi, sfruttate i talenti che avete per fare del bene a tutti, non fate i furbi dando il minimo. La pagina evangelica ci ha detto che con la misura con la quale misuriamo sarà poi misurato a noi. La vita ci dà sempre ciò che noi diamo agli altri. Ho celebrato recentemente l’anniversario di quattro amici che un anno fa sono morti sul Velino, tre di loro avevano meno di trent’anni. La loro vita, sebbene breve, è stata una vita bella, riuscita, perché segnata dall’amore. «Il bene genera bene», soleva dire Gian Mauro, e in tanti hanno beneficiato del suo bene; Valeria desiderava volare in Africa con il suo Gianmarco per aiutare i bambini meno fortunati; mentre Tonino, appassionato di alpinismo, nelle escursioni era generoso e attento con chiunque facesse parte della comitiva. La vita ha senso nella misura in cui viene donata.
Concludo con le parole di un professore, Pietro Carmina, morto qualche settimana fa, sotto le macerie di una palazzina crollata a seguito di una fuga di gas. Era andato in pensione da poco e aveva scritto una lettera ai suoi alunni. «Sono arrivato al capolinea e il magone più lancinante sta non tanto nell’essere iscritto di diritto al club degli anziani, quanto nel separarmi da questi ragazzi. Un’ultima raccomandazione però sento di farvi, mentre il mio pullman si sta fermando: usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha; non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi: infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa: voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare, non state tutto il santo giorno incollati al telefonino. Leggete, invece, viaggiate, siate curiosi, fate del bene, amate. Io mi fermo qui, a voi auguro buon viaggio».

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
nel primo anniversario della morte di Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino

La morte si configura sempre come un ladro che compie il furto dell’opera d’arte più preziosa, quella della vita. Sentiamo che la vita ci appartiene e che la morte non ha nessun posto nel nostro profondo desiderio di vita. Contro la morte noi lottiamo con tutte le nostre forze, e diventa ancor più difficile accettarla quando colpisce improvvisamente le persone che ami e che ti sono care. A distanza di un anno è certamente ancora molto grande il dolore di voi familiari e amici per la morte di Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino. E non ci sono parole umane in grado di alleviarlo. Noi siamo qui, comunità cristiana, autorità civili e militari, rappresentanti dei corpi civili e militari, associazioni di volontariato per condividere il vostro dolore. Siamo qui per dirvi che il vostro dolore è anche il nostro dolore, è il dolore di una città e della Marsica intera sempre capace, come nessun’altra terra, di avere un cuore generoso. Una terra abitata da un popolo forte e tenace che nei momenti più difficili sa ricompattarsi e far sentire calore e affetto. Non sentitevi soli, carissimi amici, sentitevi abbracciati da un’intera comunità che vi vuole bene e soffre con voi. Quanto ho desiderato, io personalmente, essere presente a questa celebrazione per portarvi tutto il mio affetto. Vi ho conosciuto solo questa mattina ma sin dal giorno in cui ho messo piede in questa terra ho colto il vostro dolore immenso. Sentitevi circondati non solo dal nostro affetto bensì in primo luogo dall’amore e dalla forza di Dio.
Dinanzi a eventi tragici e drammatici è forte la tentazione di chiudersi nel proprio dolore e prendere le distanze anche da Dio. Il brano del vangelo appena ascoltato ci mette in guardia da un peccato definito il più pericoloso di tutti. È il peccato contro lo Spirito Santo. «In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna» (Mc 3,28-29). E qual è questo peccato contro lo Spirito Santo così grave? È negare l’evidenza di Dio, la sua presenza, il suo amore. Nella pagina evangelica odierna Gesù viene scambiato per un indemoniato, mentre nel passo precedente i suoi parenti lo ritengono un pazzo. Anche noi, dinanzi a certi eventi drammatici della vita, rischiamo di non riconoscere più Dio come nostro compagno di viaggio, e di vederlo assente, distante da noi. La parola di Dio ci invita allora a non perdere la fiducia in Dio, la consapevolezza che lui ci è accanto.
Gesù è colui che ha vinto la morte non eliminandola ma affrontandola. E nel momento della morte anche lui ha avuto l’impressione di essere stato abbandonato da Dio: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). È il suo grido di dolore sulla croce.
È come se Gesù dicesse: «Sì, mi sento abbandonato, non percepisco la tua presenza, ma tu sei e tu rimani il mio Dio, e nelle tue mani io consegno la mia vita». Aveva circa trenta anni – più o meno l’età di Valeria, Gianmarco e Gian Mauro –, aveva fatto solo del bene come i nostri quattro amici, e anche lui ha conosciuto una morte prematura. Forse era necessario proprio questo affinché potesse davvero darci speranza. Ci avesse detto solo delle belle parole di consolazione, avremmo sempre potuto dire: «Sì, è vero, ma siamo noi uomini che dobbiamo morire e la morte è per noi una sconfitta irreparabile».
Solo un Dio inchiodato per amore sulla croce può dirci parole credibili anche di fronte alla morte; può garantire che la morte non è l’ultima parola pronunciata sulla nostra vita. La vittoria di Cristo sulla morte sta nella sua risurrezione. Credere nella risurrezione significa credere che la morte non è un salto nel buio bensì un passaggio da una vita ad un’altra vita: dalla vita terrena alla vita eterna. Cristo è risorto per dirci che non esiste la morte per chi ama. È l’amore che vince la morte. Il contrario della morte non è la vita, ma è l’amore. Credere nella risurrezione significa credere nell’amore. Cristo è risorto perché ha amato e lo ha fatto fino alla fine.
I nostri quattro amici hanno creduto e vissuto nell’amore. Non li ho conosciuti ma, vedendo le loro foto, leggendo e ascoltando le testimonianze di familiari e amici, ho capito che erano persone amabili con una grande voglia di vivere. E la loro vita, sebbene breve, è stata una vita riuscita, bella perché segnata dall’amore, dalla bellezza per il creato, per le alte vette. «Il bene genera bene», soleva dire Gian Mauro, e in tanti hanno beneficiato del suo bene; Valeria desiderava volare in Africa con il suo Gianmarco per aiutare i bambini meno fortunati; mentre Tonino, appassionato di alpinismo, nelle escursioni era generoso e attento con chiunque facesse parte della comitiva. I quattro amici non si accontentavano di una vita mediocre ed erano impegnati in più ambiti a fare del bene a tutti.
La loro capacità di amare è la garanzia della loro risurrezione. E il loro amore non è di certo venuto meno con la morte come non è venuto meno il vostro amore nei loro confronti. Un amore che ce li fa sentire ancora vivi e presenti. È infatti l’amore che ci consente di vivere le relazioni. Noi possiamo fisicamente stare 24 ore su 24 ore con una persona, se non c’è però amore non si crea una relazione. Ciò che crea la relazione è l’amore. È l’amore che unisce ora, forse ancora di più, Valeria a Gianmarco, è l’amore che tiene uniti i nostri quattro amici, intenti a esplorare le vette del paradiso. Ed è l’amore che, essendo più forte della morte, ci consente di vivere in relazione con i nostri fratelli defunti. Molto bello ciò che scrive sant’Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano ma sono ovunque noi siamo». Sì, Valeria, Gianmarco, Gian Mauro e Tonino sono vivi in Dio e continuano a essere presenti nel cuore di tutti coloro che li amano.
A voi, genitori, familiari e amici, desidero chiedere un’ultima cosa: continuate a custodire dentro di voi l’amore e la stima per la vita. Ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno della vostra testimonianza proprio perché sappiamo quanto la vita vi abbia percosso, abbiamo bisogno che, nonostante tutto, voi diciate a noi che è giusto sperare, che non bisogna mai perdere la fiducia in Dio e nella sua presenza, che non bisogna mai perdere l’amore per la vita. Amen.

 

 

Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
in occasione dell’apertura della fase diocesana del sinodo della Chiesa universale 2021/2023

Nel vangelo di Marco, dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù lungo il cammino verso Gerusalemme, è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio è Pietro che prende in disparte Gesù e lo rimprovera. Non sappiamo cosa gli abbia detto. Possiamo immaginarlo. Lo avrà rimproverato perché pensava più agli altri che a se stesso; lo avrà rimproverato perché non aveva calcolato bene le ripercussioni che la sua morte avrebbe avuto sugli stessi discepoli. Anche quando Gesù annuncia per la seconda volta la sua imminente passione, tutti i discepoli non comprendono e addirittura si mettono a discutere su chi tra loro fosse il più grande. Nel brano di questa XXIX domenica del tempo ordinario dell’anno B sono invece Giacomo e Giovanni che si mostrano distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli sono stati tra i primi discepoli, sono inoltre cugini di Gesù, in quanto la loro mamma probabilmente era la sorella di Maria, la madre di Gesù e per questo pensano di vantare dei privilegi. E allora si presentano a Gesù e gli dicono: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37).
È una pretesa, più che una domanda fatta da chi ragiona esattamente, come tante volte facciamo noi nel quotidiano: le relazioni contano nella misura in cui possiamo ricavare dei vantaggi. Diversamente non servono a nulla. E spesso anche con Dio noi vantiamo pretese. Pretendiamo che faccia ciò che noi vogliamo. Desideriamo un Dio obbediente, che faccia la nostra volontà, sia garante delle nostre scelte. Questa richiesta da parte dei due fratelli suscita subito una reazione sdegnata negli altri.
Gesù non si inalbera con Giacomo e Giovanni ma convoca i discepoli attorno a sé e dà loro una lezione molto istruttiva. «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così!» (42-43). Attenzione! Gesù non dice: «Tra voi non sia così», facendo un augurio, ma: «Tra voi non è così!». Bellissima espressione che mette a fuoco la differenza cristiana. Gli altri dominano, non così tra voi. Voi vi metterete a fianco delle persone mai al di sopra. Gli altri opprimono: voi invece solleverete le persone. E poi Gesù continua dicendo: «Chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (43-44). Gesù non nega il desiderio di essere grandi. Dietro ogni desiderio umano, anche il più storto, c’è sempre una matrice buona, un desiderio di vita, di bellezza, di armonia. Ogni desiderio umano ha sempre dietro una parte sana, piccolissima magari. Ma è la parte da non perdere. Si tratta di saper educare i desideri e incanalarli nella via corretta. Per diventare grandi, dice Gesù, bisogna divenire servi. Nella Chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle e basta!
L’ultima frase del vangelo è di capitale importanza: «Sono venuto per servire» (45).
È la più spiazzante definizione di Gesù Cristo. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano ascoltato nella prima lettura (Is 53,10-11). Essere servi non riguarda solo la comunità dei dodici ma riguarda soprattutto noi, la Chiesa di oggi. In particolare riguarda quelli che nella comunità cristiana esercitano un servizio sempre tentati di farlo divenire dominio, potere, sempre tentati di lavorare per sé e non per il bene della comunità. Carissimi amici, sono qui da due settimane e il Signore mi ha chiamato a essere servo di questa comunità. Pregate per me, affinché mai possa trasformare il servizio in potere e mai gli interessi personali possano prevalere sul bene di questa comunità.
Come Gesù tutti noi siamo però chiamati a essere umili servi nelle mani di Dio. Nasce così la Chiesa identificata dal cardinal Martini come una «comunità che in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e interessate, esprime la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementate dal dialogo e dalla mutua accettazione».
Il sinodo della Chiesa universale, voluto fortemente da papa Francesco, e che oggi si apre in tutte le diocesi del mondo, non è finalizzato a fare un’altra Chiesa bensì una Chiesa diversa. Fare sinodo significa camminare insieme. Le parole chiave del sinodo sono tre: comunione, partecipazione, missione.
Comunione e missione esprimono la natura della Chiesa. Ma comunione e missione rischiano di restare termini astratti se non si coltiva una partecipazione vera da parte di tutti. Nella Chiesa tutti i battezzati sono protagonisti. Non è protagonista il vescovo bensì tutti e nessuno può essere considerato una semplice comparsa. «Uno dei nodi della Chiesa è il clericalismo che stacca il prete, il vescovo dalla gente e quando – ha affermato papa Francesco – il vescovo o il prete si staccano dalla gente diventano dei funzionari e non pastori».
Il sinodo avrà tre fasi: la prima è la fase diocesana che si apre oggi, il cui obiettivo è la consultazione del popolo di Dio la cui modalità sarà decisa e stabilita discutendo e lavorando insieme. I lavori inizieranno già martedì 19 ottobre avendo convocato presbiteri, diaconi e religiosi per vivere l’assemblea presbiterale.
Alla fase diocesana seguirà la fase sapienziale, nella quale i lavori saranno allargati a livello nazionale, e infine la fase profetica, con l’indicazione per la Chiesa universale di alcuni passi e scelte da mettere in atto.
Nella fase diocesana si tratta di porsi in ascolto all’interno delle parrocchie, delle comunità religiose, delle foranie, delle aggregazioni laicali e dei diversi organismi di partecipazione. Un vero incontro nasce sempre dall’ascolto. Ascolto della Parola di Dio insieme alle parole degli altri. Fare sinodo è scoprire che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente per suggerire percorsi e linguaggi nuovi.
In questa prima fase vogliamo imparare ad ascoltarci, vescovo, preti, diaconi, religiosi e laici, evitando risposte artificiali e superficiali. Lo Spirito chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni battezzato. Sono certo che più che attendersi ricette efficaci o miracoli dal documento finale, che pure auspichiamo concreto e coraggioso, sarà proprio questo percorso di ascolto del Signore e dei fratelli a farci sperimentare la bellezza dell’incontro, la bellezza della Chiesa.
In particolare sarà per la nostra Chiesa locale importante sperimentare la bellezza di sentirci fratelli tra noi presbiteri. Il primo dono che i presbiteri sono chiamati a offrire alla comunità cristiana non è una serie di iniziative o una somma di funzioni ma la testimonianza di una fraternità concretamente vissuta, un servizio pastorale che sia segno credibile di una comunione non soltanto operativa ma cordialmente fraterna. Le divisioni e le frizioni tra noi presbiteri diventano presto divisioni e frizioni tra le diverse comunità parrocchiali. E questo non è bello!
Non si è presbiteri senza o a prescindere dal vescovo e dai confratelli. Del resto, l’esperienza insegna come la solitudine per un prete non stia nel fatto che, una volta chiusa la porta della canonica, non trovi nessuno accanto a sé, quanto piuttosto nella mancanza di comunione con i confratelli. Il presbiterio è il luogo dell’incontro, del dialogo, è il luogo per sperimentare la bellezza di essere preti.
Sarà, inoltre importante per la nostra comunità diocesana, camminare insieme tra le diverse realtà ecclesiali, superando un rigido campanilismo che rischia di immobilizzarci. Mi piace rileggere in senso ecclesiologico il comandamento biblico dell’«Ama il prossimo come te stesso» (Lv 19,18) in questo modo: «Ama la parrocchia altrui come la tua, l’aggregazione laicale altrui come la tua, la confraternita altrui come la tua». Le parrocchie e i vari organismi non sono chiamati a essere realtà isolate ma in profonda comunione tra loro.
Sarà importante valorizzare ulteriormente il laicato che in questa diocesi costituisce una risorsa importante. L’ora nella quale la splendida teoria sul laicato espresso dal concilio possa diventare un’autentica prassi ecclesiale va accelerata ora più che mai nel senso di cogliere l’intera ricchezza di grazia e di responsabilità per la missione evangelizzatrice della Chiesa e per il servizio al bene comune della società.
Dobbiamo solo evitare che il sinodo si riduca a un evento straordinario solo di facciata proprio come se si restasse a guardare una bella facciata di una Chiesa senza mai mettervi piede dentro.
Viviamo invece, carissimi fratelli e sorelle, questa occasione di incontro, ascolto e riflessione come un tempo di grazia che nella gioia del vangelo consente alla nostra Chiesa dei Marsi di essere chiesa sinodale cioè un luogo aperto, accogliente dove tutti si sentono a casa desiderosi di partecipare e sperimentare la bellezza di essere discepoli di Gesù.

 

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