Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Questa è veramente la notte che ha capovolto e sconvolto la storia dell’umanità. È questa la notte che deve capovolgere e deve sconvolgere la mia e la vostra vita. C’è un morto che torna a vivere. C’è un uomo torturato, oltraggiato, crocifisso come un malfattore tra i malfattori, che torna a camminare, a parlare e ad incontrare. C’è un uomo che era stato messo nella tomba, come tutti quando chiudono gli occhi. E le donne vanno a visitare la tomba e ascoltano parole fuori dal comune: «Il crocifisso non è qui è risorto». E forse anche noi abbiamo coperto di abitudine queste parole, non ne cogliamo più l’inaudito, forse. E ripetiamo la più grande e immensa certezza della nostra fede, «Cristo è risorto», come il ritornello di una canzone scontata, come un disco inceppato che ruota su sé stesso, forse. E fuori dalle nostre chiese, in questo mondo blindato, che vive la notte dell’aggressione del male, Cristo risorto, forse per molti, è soltanto un’illusione, una mistificazione, un vaneggiamento. E la Pasqua è solo la festa di una primavera mancata, o della natura che si risveglia e che filtra attraverso le finestre. E allora lasciate che io rivolga un’invocazione a quanti hanno smarrito o assopito la propria fede.
L’invocazione è questa, semplice e grande nel nostro tempo: fate entrare la luce! Fate entrare la luce in questa notte, nel vostro cuore e dentro le vostre case. Fate entrare la luce. Quella luce che non è un riverbero, ma è una persona, è il volto luminoso di Gesù. Fate entrare la luce per tornare a credere che la tomba del venerdì santo non ci ha restituito Gesù come una reliquia ma come il vivente, l’eterno presente. E non c’è frammento della nostra vita dove lui non sia compagnia di speranza. Fate entrare la luce per bruciare con il fuoco del suo amore tutte le scorie dei nostri orgogli, delle nostre indifferenze, delle nostre supponenze. Fate entrare la luce per lasciarci tutti illuminare dalla sua Parola di verità, uccisa e poi tornata a circolare dal sepolcro, unica parola di verità nella grande oscurità del nostro tempo. Oscurità di menzogne omologanti e omologate. Fate entrare la luce per risuscitare il nostro Battesimo, il giorno in cui siamo stati associati alla sua morte e risurrezione, affinché tutta la nostra vita sia un morire al peccato e un risorgere nella comunione ritrovata alla vita nuova della grazia. Fate entrare la luce, per accendere la più consolante delle lampade. Come Cristo è risorto anche io risorgerò. Lui ha vinto la morte e la morte non sarà il buco nero che inghiotte il nulla. La morte sarà il parto che mi genera alla casa degli eterni risorti.
«O notte beata», così canta la santa liturgia, e sarà veramente beata questa notte se ognuno di noi, nella luce, avrà riconsegnato la sua vita a Gesù. Questa riconsegna sostiene le nostre paure, alimenta la grande certezza che il silenzio di Dio sui mali che sconvolgono la vita, non è l’assenza di Dio, ma è la misteriosa condivisione di Dio, che ci offre la sua stessa energia di vita e ci rende capaci di sperare e di amare. Questa riconsegna ci rimette in cammino per essere cristiani mai spenti, mai dormienti e mai oscurati. Questo il mio augurio: cristiani che si riconsegnano a Cristo, con l’affetto di sempre. Gesù risorto è garanzia che ogni affetto sincero, che alimenta le energie più nascoste del nostro cuore, diventa certezza sicura per me e per tutti. Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Il venerdì santo è il cuore della nostra fede. Sul Calvario il volto di Dio incarnato è stato oltraggiato, deriso, crocifisso, ucciso. Non è un fatto di cronaca accaduto nella periferia dell’impero, ma è il mistero immenso di Dio che per amore si è caricato del peccato degli uomini, si è caricato di ogni dolore umano, ha offerto il suo figlio nell’abbandono estremo alla croce e offrendolo si è consumato per amore. E da quel lontano venerdì santo nessuno di noi è periferia di Dio. Non esiste situazione umana di povertà, di abbandono, di solitudine che non sia raggiunta dall’amore crocifisso del Figlio di Dio. Ogni nostra morte del corpo e dell’anima è conficcata nel cuore del crocifisso. La collina del Calvario incrocia le nostre strade: le strade delle nostre città, dei nostri paesi, delle nostre famiglie. E non possiamo voltarci da un’altra parte perché percorreremmo le strade della perdizione. La strada obbligante per tutti è la stessa che ha portato il figlio di Dio sulla croce: vivere per amore, vivere donando amore, senza deviazioni. Diventa sempre più necessario percorrere questa strada e il nostro, diventa sempre più il tempo delle sofferte solitudini e del dolore innocente. Quando Dio muore nelle coscienze muore la fraternità, muore la condivisione, muore il perdono. Gesù crocifisso, morto per amore, cerca come un mendicante donne e uomini capaci di pagare il prezzo più alto affinché prenda corpo nel mondo il Vangelo della misericordia.
E misericordia vuol dire portare tutti nel cuore, nessuno escluso. Vuol dire sentirsi responsabili del destino dell’altro, assumere il bisogno dell’altro, di ogni altro. E tutto cambia in noi se assumiamo lo sguardo di Gesù. Tutto cambia se guardiamo l’altro con gli occhi stessi di Gesù. Se non lo comprendiamo ora, quando lo comprenderemo? Quando comprenderemo che siamo legati l’uno all’altro? Quando lo capiremo? Quando capiremo che siamo chiamati ad essere un popolo capace di costruire la dignità di ognuno e di tutti, e che a ciascuno è lecito fare tutto ma non imboscarsi in una cavità di gioia blindata. La passione di Gesù non è una cornice immobile. La passione di Gesù continua fino alla fine dei tempi. Continua nella carne fragile di ogni uomo, di ogni donna, nelle ferite aperte durante le agonie dell’anima e del corpo. E noi non possiamo recitare la passione solo con sospiri di devozione, sarebbe la caricatura della nostra fede. Dobbiamo toccare la passione di Gesù lasciandoci trafiggere dalla carne di chi vive la passione. Il Signore aspetta la discontinuità dei nostri gesti, delle nostre parole. Mi affido e vi affido al cuore trafitto di Cristo, affinché Cristo entri nel cuore di tutti come maestro e redentore. Nella grande sera di una storia contemporanea schiacciata da un presente sospeso nessuno di noi è dimenticato da Dio, in Gesù abbandonato sulla Croce, nessuno è abbandonato. Nessuno.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

La sera del giovedì santo, la sera del cenacolo, siamo tutti con gli apostoli, tutti attorno alla tavola per ascoltare parole vertiginose e contemplare gesti che hanno la dimensione dell’eterno. Il Signore avverte l’ora dell’agonia, del distacco. Il suo cuore trabocca di misericordia. Agli apostoli, che stanno per abbandonarlo, riversa fino in fondo il suo amore: li chiama «figlioli miei», dice loro: «Amatevi come io vi ho amato». E per rendere evidente la consegna dell’amore, si alza, lascia la tunica, si cinge con l’asciugatoio, versa l’acqua in un catino, lava loro i piedi e li asciuga. Si abbassa, Gesù. È il Dio della tenerezza. A loro affida il mandato: «fate anche voi come ho fatto io». E tornano le parole di papa Francesco, «Non abbiate paura della bontà e della tenerezza», come a dire che il nostro è il Dio che ha la passione di servire, in ginocchio, dinanzi alle sue creature. E noi ci chiediamo, «ma chi è il più vicino?», «chi è il più somigliante a Dio?». È chi non ha paura di sporcarsi le mani nel compiere gesti di pietà e di fraternità, è chi non indossa la maschera della supponenza, è chi non guarda l’altro dall’alto in basso, ma si curva, donando il proprio cuore che così diventa simile al cuore stesso di Dio. Una Chiesa dove ognuno lava i piedi dell’altro, questa deve essere la nostra Chiesa: la Chiesa uscita dal cenacolo, non una burocrazia di funzioni. Una società dove ognuno lava i piedi dell’altro non è più la società dei privilegi e delle esclusioni, dei proclami gridati e delle ingiustizie perpetrate. Non è più la società delle invettive pubbliche e delle solitudini piante nel privato. Ma è la società dove il Vangelo viene piantato e cammina con i piedi puliti dei cristiani. È un sogno tutto questo? Sì, ma è il sogno di Dio, è il sogno che lui ci affida. E il sogno di Dio diventa per tutti materiale di costruzione. E Gesù stesso ci consegna il sacramento della ricostruzione interiore, l’Eucaristia. L’Eucaristia nasce nel cenacolo dell’amore donato fino all’ultimo. Compiuti i riti prescritti dalla tradizione ebraica, Gesù prende il pane e il vino. Spezza il pane, lo distribuisce, «mangiatene tutti». Offre il vino, «bevetene tutti, fate questo in memoria di me». Nel pane e nel vino c’è tutto il Signore. C’è il suo perdono, c’è la sua morte e risurrezione. Gesù si consegna nelle nostre mani nell’Eucaristia.
Si consegna ogni giorno fino alla consumazione del mondo. Si consegna tutti i giorni alle nostre fragilità. Mangiare il pane dell’Eucaristia deve condurci ad assimilare lo stesso cuore di Cristo, cuore che non si trattiene ma si affida. Cuore che batte con il respiro di ogni uomo, senza esclusione, senza barriere. Ricordiamolo bene in questo tempo di digiuno eucaristico, quando ci viene chiesto per dovere di amore, solo la comunione spirituale. Ricordiamolo bene, alimentando il desiderio di sentirci presto insieme, e di nutrirci insieme del corpo dell’eternità. Ricordiamolo bene, quando torneremo ad essere finalmente insieme a celebrare l’Eucaristia, fianco a fianco. Non possiamo celebrare l’Eucaristia come estranei, non possiamo celebrare l’Eucaristia senza sentirci in cordata e legati dallo stesso destino. Non possiamo partecipare allo stesso banchetto, nutrirci della passione di Gesù per il mondo, e poi vivere nell’indifferenza più abissale. Sarebbe lo svuotamento dell’Eucaristia, sarebbe lo svuotamento del nostro cristianesimo. È scritto ancora nel Vangelo che dopo aver cantato l’inno uscirono. Gesù e gli apostoli uscirono dal cenacolo, dalla stanza del piano superiore, da dove avevano guardato dall’alto la città illuminata alle prime luci della notte. E uscirono verso l’agonia dell’orto degli ulivi. Così, tutte le volte che noi usciremo dalle nostre Eucaristie, anche quando terminerà questa Eucaristia che entra nelle vostre case, ricordiamoci che ogni Eucaristia ci dà una consegna: la consegna di perdonarci, di spezzare – quel poco o quel tanto di benessere che abbiamo – con chi è lontano dal nostro cuore. La consegna di non tradire l’amicizia di Cristo, non tradendo così l’amicizia di quanti Cristo ci ha affidato. E Cristo ci ha affidato tutti, a tutti, nessuno escluso.
A tutti è affidata le consegna di lavare i piedi dei nostri fratelli e anche la consegna di essere nel cuore dei nostri sacerdoti. In quel primo giovedì santo, Gesù ci ha fatto dono del sacerdozio ministeriale, ha consegnato alla Chiesa persone che, pur nella loro fragilità umana, scelte da lui, in nome suo spezzano il pane, riconciliano, annunciano la sua Parola. Con il sacerdote si costruisce la Chiesa dell’abbraccio. Attraverso il sacerdote passa l’abbraccio di redenzione di Cristo. Il giovedì santo raccoglie tutti i frammenti della nostra vita, raccoglie il tempo che passa, raccoglie i messaggi che Dio continua a mandarci. Questo nostro Dio che questa sera ci abbraccia tutti anche se lontani nello spazio, attorno alla tavola dell’amore, per ripetere la sua lezione: dobbiamo camminare insieme, non possiamo sentirci discepoli di Cristo senza portarci l’uno la croce dell’altro. Le croci sono tante, e non solo le croci della pandemia, le difficoltà sono tante. Ci vuole sempre la certezza che c’è qualcuno che ci prende per mano, che ci alza, che ci rincuora, che ci rimette in strada. Il tempo del virus ci fa percepire che non si può vivere la vita come una recita da palcoscenico. C’è un fiume di dolore nella storia, di lacrime sommerse, e ogni lacrima deve trovare chi le raccolga e chi le asciughi, chi incoraggi alla speranza. In questa sera struggente del giovedì santo, mentre sul Calvario è stata già piantata la croce, desidero che ciascuno di noi rinnovi la scelta radicale della propria vita: stare accanto a Cristo, non per esprimere una semplice devozione ma con una decisione che abbraccia il tempo e l’eternità. «Ti seguirò Signore, dovunque tu vada», da questa decisione inizi a fiorire il mattino di Pasqua.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Con quale profondità abbiamo accolto la narrazione della passione di Gesù. Come ci sentiamo avvolti da eventi che sono stati e sono un immenso abisso di peccato e di amore, di perdizione e di salvezza. Ci siamo dentro tutti. Ognuno chiamato a non sentirsi estraneo, ma a sfogliare il libro della sua vita, della sua fede. Il tradimento di Giuda pertrenta monete d’argento e la sua disperazione impiccato all’albero, perché incapace di credere alla misericordia del Signore. Il tradimento di Pietro, «Gesù? Non lo conosco!», e le sue lacrime di pentimento dopo il canto del gallo che scava il rimorso e la fiducia di non avere smarrito l’amore di Gesù. L’Eucaristia. «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo». Il corpo che sarà immolato sulla croce diventa nell’Eucaristia il pane della permanenza di Gesù nella storia: il pane della redenzione. L’agonia nell’orto degli ulivi; il sonno dei discepoli, il sonno dell’impotenza e della fuga; la condanna del sinedrio. Il processo farsa a chi aveva scardinato il Dio visto come copertura di una religiosità vuota e ipocrita. Pilato, e la paura di perdere il potere, la folla manovrata. E c’è sempre un Barabba, ieri come oggi, che la folla sceglie per condurre al patibolo l’innocente. Una corona di spine, di sputi. La derisione. Il cammino verso la collina del supplizio. L’uomo di Cirene costretto a portare la croce del Signore. Il Golgota, la crocifissione, e ancora insulti, «scendi dalla croce e salva te stesso»; ma il Signore non scende, rimane. Rimane inchiodato nel dono di un amore che salva, assumendo tutte le negazioni dell’uomo di ogni tempo. E poi il buio. Il buio della desolazione suprema, il sentirsi abbandonato persino dal Padre. E l’ultimo grido, il grido della morte. Il riconoscimento appartiene ad un pagano, il centurione: «Davvero costui era il Figlio di Dio!».
Il riconoscimento non è della folla della domenica delle palme, dell’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme. Quella folla non c’è più, è scomparsa, si è dileguata. Aveva accompagnato Gesù in corteo, ma il corteo delle palme si era sciolto, diluito nella paura e nella falsa immagine di un Dio concepito soltanto come il paravento di un benessere terreno. Inconcepibile, per la folla, un Dio che si consegna alla morte. Un Dio che muore crocifisso nell’unica cattedra che ribalta la logica del peccato: la cattedra dell’amore fino alla consumazione. E infine, la pesante pietra che sigilla il sepolcro. Tutto finito? No. Ma dove finisce l’uomo Dio continua. E noi crediamo, dove e come, Dio continua. Continua nel cuore di chi fa entrare Dio nella propria vita, e la vita diventa un canto di risurrezione, deposto nella cenere di ogni peccato. Ciascuno di noi si lasci trafiggere dalla passione de Signore che ci ricompone, dentro e oltre, le nostre domande. Dentro ed oltre i nostri perché. Oggi è il tempo dei perché. Perché le morti in questo tempo di aggressione del male? Perché le morti in solitudine? Perché il dolore innocente? Perché le vittime delle violenze e delle ingiustizie? Perché proprio a me? Perché proprio alla mia famiglia? La risposta sta tutta dentro gli occhi che sanno guardare Cristo, che incrociano gli occhi di Cristo e che sanno dire «ecco l’uomo, ecco il nostro fratello nel dolore». Dio non è venuto ad eliminare il dolore, ha fatto di più. È venuto a prendere su di sé il dolore dell’uomo. Ed ecco cos’è la croce: non è un simbolo, è il segno; è il sacramento della sofferenza degli uomini che Dio riceve e che mette sulle proprie spalle. La croce è il lutto terribile del dolore umano che va a schiantare il cuore di Dio. Nel corpo straziato di Cristo, niente è stato dimenticato. Nel corpo straziato di Cristo cisono i nostri lamenti, le nostre solitudini, i nostri strazi, e niente va perduto. Cristo è venuto a cercare il dolore inutile, lo ha caricato sotto il peso della sua croce e ognuno può dire «Gesù, fratello mio». La Pasqua comincia ora, ai piedi della croce e di fronte al sepolcro sigillato. E ogni tristezza e ogni paura devono cambiarsi in speranza. La speranza è Gesù. Il futuro nuovo per me, per voi, per tutti è soltanto Gesù! Amen.

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