Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

La sera del giovedì santo, la sera del cenacolo, siamo tutti con gli apostoli, tutti attorno alla tavola per ascoltare parole vertiginose e contemplare gesti che hanno la dimensione dell’eterno. Il Signore avverte l’ora dell’agonia, del distacco. Il suo cuore trabocca di misericordia. Agli apostoli, che stanno per abbandonarlo, riversa fino in fondo il suo amore: li chiama «figlioli miei», dice loro: «Amatevi come io vi ho amato». E per rendere evidente la consegna dell’amore, si alza, lascia la tunica, si cinge con l’asciugatoio, versa l’acqua in un catino, lava loro i piedi e li asciuga. Si abbassa, Gesù. È il Dio della tenerezza. A loro affida il mandato: «fate anche voi come ho fatto io». E tornano le parole di papa Francesco, «Non abbiate paura della bontà e della tenerezza», come a dire che il nostro è il Dio che ha la passione di servire, in ginocchio, dinanzi alle sue creature. E noi ci chiediamo, «ma chi è il più vicino?», «chi è il più somigliante a Dio?». È chi non ha paura di sporcarsi le mani nel compiere gesti di pietà e di fraternità, è chi non indossa la maschera della supponenza, è chi non guarda l’altro dall’alto in basso, ma si curva, donando il proprio cuore che così diventa simile al cuore stesso di Dio. Una Chiesa dove ognuno lava i piedi dell’altro, questa deve essere la nostra Chiesa: la Chiesa uscita dal cenacolo, non una burocrazia di funzioni. Una società dove ognuno lava i piedi dell’altro non è più la società dei privilegi e delle esclusioni, dei proclami gridati e delle ingiustizie perpetrate. Non è più la società delle invettive pubbliche e delle solitudini piante nel privato. Ma è la società dove il Vangelo viene piantato e cammina con i piedi puliti dei cristiani. È un sogno tutto questo? Sì, ma è il sogno di Dio, è il sogno che lui ci affida. E il sogno di Dio diventa per tutti materiale di costruzione. E Gesù stesso ci consegna il sacramento della ricostruzione interiore, l’Eucaristia. L’Eucaristia nasce nel cenacolo dell’amore donato fino all’ultimo. Compiuti i riti prescritti dalla tradizione ebraica, Gesù prende il pane e il vino. Spezza il pane, lo distribuisce, «mangiatene tutti». Offre il vino, «bevetene tutti, fate questo in memoria di me». Nel pane e nel vino c’è tutto il Signore. C’è il suo perdono, c’è la sua morte e risurrezione. Gesù si consegna nelle nostre mani nell’Eucaristia.
Si consegna ogni giorno fino alla consumazione del mondo. Si consegna tutti i giorni alle nostre fragilità. Mangiare il pane dell’Eucaristia deve condurci ad assimilare lo stesso cuore di Cristo, cuore che non si trattiene ma si affida. Cuore che batte con il respiro di ogni uomo, senza esclusione, senza barriere. Ricordiamolo bene in questo tempo di digiuno eucaristico, quando ci viene chiesto per dovere di amore, solo la comunione spirituale. Ricordiamolo bene, alimentando il desiderio di sentirci presto insieme, e di nutrirci insieme del corpo dell’eternità. Ricordiamolo bene, quando torneremo ad essere finalmente insieme a celebrare l’Eucaristia, fianco a fianco. Non possiamo celebrare l’Eucaristia come estranei, non possiamo celebrare l’Eucaristia senza sentirci in cordata e legati dallo stesso destino. Non possiamo partecipare allo stesso banchetto, nutrirci della passione di Gesù per il mondo, e poi vivere nell’indifferenza più abissale. Sarebbe lo svuotamento dell’Eucaristia, sarebbe lo svuotamento del nostro cristianesimo. È scritto ancora nel Vangelo che dopo aver cantato l’inno uscirono. Gesù e gli apostoli uscirono dal cenacolo, dalla stanza del piano superiore, da dove avevano guardato dall’alto la città illuminata alle prime luci della notte. E uscirono verso l’agonia dell’orto degli ulivi. Così, tutte le volte che noi usciremo dalle nostre Eucaristie, anche quando terminerà questa Eucaristia che entra nelle vostre case, ricordiamoci che ogni Eucaristia ci dà una consegna: la consegna di perdonarci, di spezzare – quel poco o quel tanto di benessere che abbiamo – con chi è lontano dal nostro cuore. La consegna di non tradire l’amicizia di Cristo, non tradendo così l’amicizia di quanti Cristo ci ha affidato. E Cristo ci ha affidato tutti, a tutti, nessuno escluso.
A tutti è affidata le consegna di lavare i piedi dei nostri fratelli e anche la consegna di essere nel cuore dei nostri sacerdoti. In quel primo giovedì santo, Gesù ci ha fatto dono del sacerdozio ministeriale, ha consegnato alla Chiesa persone che, pur nella loro fragilità umana, scelte da lui, in nome suo spezzano il pane, riconciliano, annunciano la sua Parola. Con il sacerdote si costruisce la Chiesa dell’abbraccio. Attraverso il sacerdote passa l’abbraccio di redenzione di Cristo. Il giovedì santo raccoglie tutti i frammenti della nostra vita, raccoglie il tempo che passa, raccoglie i messaggi che Dio continua a mandarci. Questo nostro Dio che questa sera ci abbraccia tutti anche se lontani nello spazio, attorno alla tavola dell’amore, per ripetere la sua lezione: dobbiamo camminare insieme, non possiamo sentirci discepoli di Cristo senza portarci l’uno la croce dell’altro. Le croci sono tante, e non solo le croci della pandemia, le difficoltà sono tante. Ci vuole sempre la certezza che c’è qualcuno che ci prende per mano, che ci alza, che ci rincuora, che ci rimette in strada. Il tempo del virus ci fa percepire che non si può vivere la vita come una recita da palcoscenico. C’è un fiume di dolore nella storia, di lacrime sommerse, e ogni lacrima deve trovare chi le raccolga e chi le asciughi, chi incoraggi alla speranza. In questa sera struggente del giovedì santo, mentre sul Calvario è stata già piantata la croce, desidero che ciascuno di noi rinnovi la scelta radicale della propria vita: stare accanto a Cristo, non per esprimere una semplice devozione ma con una decisione che abbraccia il tempo e l’eternità. «Ti seguirò Signore, dovunque tu vada», da questa decisione inizi a fiorire il mattino di Pasqua.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Con quale profondità abbiamo accolto la narrazione della passione di Gesù. Come ci sentiamo avvolti da eventi che sono stati e sono un immenso abisso di peccato e di amore, di perdizione e di salvezza. Ci siamo dentro tutti. Ognuno chiamato a non sentirsi estraneo, ma a sfogliare il libro della sua vita, della sua fede. Il tradimento di Giuda pertrenta monete d’argento e la sua disperazione impiccato all’albero, perché incapace di credere alla misericordia del Signore. Il tradimento di Pietro, «Gesù? Non lo conosco!», e le sue lacrime di pentimento dopo il canto del gallo che scava il rimorso e la fiducia di non avere smarrito l’amore di Gesù. L’Eucaristia. «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo». Il corpo che sarà immolato sulla croce diventa nell’Eucaristia il pane della permanenza di Gesù nella storia: il pane della redenzione. L’agonia nell’orto degli ulivi; il sonno dei discepoli, il sonno dell’impotenza e della fuga; la condanna del sinedrio. Il processo farsa a chi aveva scardinato il Dio visto come copertura di una religiosità vuota e ipocrita. Pilato, e la paura di perdere il potere, la folla manovrata. E c’è sempre un Barabba, ieri come oggi, che la folla sceglie per condurre al patibolo l’innocente. Una corona di spine, di sputi. La derisione. Il cammino verso la collina del supplizio. L’uomo di Cirene costretto a portare la croce del Signore. Il Golgota, la crocifissione, e ancora insulti, «scendi dalla croce e salva te stesso»; ma il Signore non scende, rimane. Rimane inchiodato nel dono di un amore che salva, assumendo tutte le negazioni dell’uomo di ogni tempo. E poi il buio. Il buio della desolazione suprema, il sentirsi abbandonato persino dal Padre. E l’ultimo grido, il grido della morte. Il riconoscimento appartiene ad un pagano, il centurione: «Davvero costui era il Figlio di Dio!».
Il riconoscimento non è della folla della domenica delle palme, dell’ingresso festoso di Gesù a Gerusalemme. Quella folla non c’è più, è scomparsa, si è dileguata. Aveva accompagnato Gesù in corteo, ma il corteo delle palme si era sciolto, diluito nella paura e nella falsa immagine di un Dio concepito soltanto come il paravento di un benessere terreno. Inconcepibile, per la folla, un Dio che si consegna alla morte. Un Dio che muore crocifisso nell’unica cattedra che ribalta la logica del peccato: la cattedra dell’amore fino alla consumazione. E infine, la pesante pietra che sigilla il sepolcro. Tutto finito? No. Ma dove finisce l’uomo Dio continua. E noi crediamo, dove e come, Dio continua. Continua nel cuore di chi fa entrare Dio nella propria vita, e la vita diventa un canto di risurrezione, deposto nella cenere di ogni peccato. Ciascuno di noi si lasci trafiggere dalla passione de Signore che ci ricompone, dentro e oltre, le nostre domande. Dentro ed oltre i nostri perché. Oggi è il tempo dei perché. Perché le morti in questo tempo di aggressione del male? Perché le morti in solitudine? Perché il dolore innocente? Perché le vittime delle violenze e delle ingiustizie? Perché proprio a me? Perché proprio alla mia famiglia? La risposta sta tutta dentro gli occhi che sanno guardare Cristo, che incrociano gli occhi di Cristo e che sanno dire «ecco l’uomo, ecco il nostro fratello nel dolore». Dio non è venuto ad eliminare il dolore, ha fatto di più. È venuto a prendere su di sé il dolore dell’uomo. Ed ecco cos’è la croce: non è un simbolo, è il segno; è il sacramento della sofferenza degli uomini che Dio riceve e che mette sulle proprie spalle. La croce è il lutto terribile del dolore umano che va a schiantare il cuore di Dio. Nel corpo straziato di Cristo, niente è stato dimenticato. Nel corpo straziato di Cristo cisono i nostri lamenti, le nostre solitudini, i nostri strazi, e niente va perduto. Cristo è venuto a cercare il dolore inutile, lo ha caricato sotto il peso della sua croce e ognuno può dire «Gesù, fratello mio». La Pasqua comincia ora, ai piedi della croce e di fronte al sepolcro sigillato. E ogni tristezza e ogni paura devono cambiarsi in speranza. La speranza è Gesù. Il futuro nuovo per me, per voi, per tutti è soltanto Gesù! Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

«Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica». L’invocazione del salmo liturgico incrocia le nostre personali invocazioni, e diventa un grido che raccoglie i nostri smarrimenti, un grido che chiede e che implora che non venga meno la nostra fede. Una fede che illumini il mistero dell’eterna presenza di Cristo nella nostra storia e sappia unire la passione del Signore alla passione del nostro popolo. Il nostro è veramente il tempo in cui la fede viene messa a dura prova, ma è anche il temo del credere. Come scriveva don Primo Mazzolari, in pagine profetiche aperte ad ogni epoca: «È tempo di credere, è tempo di fede. Non esistono tempi ordinari, esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora. Tutti i tempi sono tempi straordinari. Gesù è il pellegrino di ogni strada che rinnova la sua presenza. Lui, il nostro Dio fatto uomo, lui presente su ogni strada, in ogni uomo, in ogni creatura, in ogni cosa, perché io non sia più solo. Con i suoi occhi posso capire anche la morte. Senza di lui non capisco niente. Se non soffro insieme a tutti non sono un cristiano. Se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle». Profonda l’affermazione: «Con gli occhi di Cristo posso capire anche la morte».
È vero, non posso spiegarla, ma posso capirla nel suo mistero; oltre le ragioni medico-scientifiche e non togliendo alla morte la sua drammaticità. Oggi stiamo vivendo tutti l’irruzione drammatica della morte. Capirla perché «la morte ci interroga come viandanti nello stretto marciapiede della terra», direbbe san Giovanni Paolo II, viandanti consapevoli che il viaggio termina. E dopo? E qui siamo avvolti dalla pagina di vangelo. Siamo avvolti dalla convinzione che in questa pagina di vangelo c’è tutto il mistero e la verità della morte e della vita. Siamo avvolti per entrare nel nostro tempo e riportare il vangelo al nostro tempo, anche dalla commozione e dal pianto di Gesù, dinanzi alla morte di Lazzaro. Siamo avvolti dal vertiginoso dialogo tra Marta ed il Signore. Gesù le dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo». Ecco la verità, immensa e scandalosa per chi non crede. Gesù, con la sua risurrezione, non solo ha vinto la sua morte, ma ha vinto la morte di tutti. Ogni foglia che cade non marcisce ma è avvolta dal vento della risurrezione. So che diventa difficile approdare a questi pensieri mentre ogni giorno ascoltiamo il numero dei morti e dei defunti, a causa del male terribile che ci è piombato addosso, mentre medici e infermieri tentano di strappare alla morte chi è stato contagiato, mentre preghiamo «liberaci dal male». È vero, siamo tutti nel vortice del turbamento, ma dentro questo vortice chiediamo al Signore il dono di piangere con chi piange, il dono di essere uniti nella sincera commozione di cuore, perché siamo legati da un destino comune: siamo tutti figli della stessa famiglia. E se non lo capiamo adesso, quando lo capiremo? Chiediamo al Signore il dono di non essere smemorati, di ripensare al mistero reale del nostro esistere.
La fragilità, compresa la fragilità estrema della morte, è parte costitutiva del nostro essere creature. Ma la morte è anche un parto. È il parto che ci genera all’eternità. Un’eternità che ogni frammento ricompone nel tutto che è Dio. Ed è a Dio che ogni giorno dobbiamo restituire la nostra vita, a lui che ce l’ha data, restituirla rendendola ogni giorno un canto di amore, in attesa dell’ultima restituzione. La grandezza della vita è tutta nell’amore. La miseria di una vita è l’essere rattrappiti di fronte allo specchio del proprio io. Dobbiamo camminare facendoci toccare dal vento e dal soffio dell’eternità. La fede non è un diversivo spirituale, il viaggio della vita verso il Padre porta a vedere il Padre in ogni uomo, perché lui ci riconsegna ogni uomo come fratello. Dobbiamo tendere il cuore ai nostri morti, a quelli di casa e a tutti gli altri. Tutti ci appartengono. Chiediamo ai nostri morti di parlarci. La loro voce è una voce sottile, va percepita nel silenzio. E cosa ci dicono i nostri morti? Ci ridonano all’amore che hanno sempre avuto per noi ma ci dicono anche «Tutto con Dio e nulla senza Dio». Questo è il senso della vita. Ci dicono che il vangelo è la mappa che orienta il cammino nella notte del mondo. E allora riprendiamo la speranza che non muore, perché noi siamo quelli che hanno speranza, noi non siamo ciechi che vagano senza meta. Noi siamo quelli che dicono, dinanzi alle tombe dei nostri cari – alle tombe lontane o vicine –, le stesse parole di Gesù dinanzi alla tomba di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno».

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; è un pover’uomo costretto a mendicare per sopravvivere: non conosce la bellezza della luce, la poesia dei colori, il sorriso dei volti. È un emarginato; è un escluso avvolto nella solitudine; è un uomo marchiato, bollato. Ma Gesù non passa oltre. Tutti passano oltre. Gesù si ferma, si avvicina, lo tocca con tenerezza e lo guarisce. Mentre tutti i discepoli e i farisei discutono sulla condizione del cieco, Gesù gli apre gli occhi… e gli occhi passano dall’oscurità alla luce. E non solo alla luce del corpo ma anche e soprattutto alla luce della fede. Il dialogo tra il Signore e il mendicante è di una bellezza vertiginosa: «Credi nel Figlio dell’uomo?». «E chi è?», «Tu lo hai visto, è colui che ti parla». «Io credo, Signore», e si butta in ginocchio. Dalla notte del cuore il mendicante entra nel giorno della verità. Così la narrazione del Vangelo entra nella nostra vita e diventa la narrazione della nostra speranza.
La fede non è un possesso tranquillo, non è un cuscino su cui riposare, non è neanche un tranquillante della coscienza. La fede è continua domanda, continua interrogazione affinché Dio ci apra gli occhi per riconoscere in Gesù la luce vera dell’esistenza. La fede è, in questo momento di dolore, avvertire la presenza di Cristo che porta la nostra stessa croce, che condivide il nostro stesso dolore. La nostra croce è la croce di Gesù, le nostre lacrime sono le lacrime di Gesù. Il cristiano è un mendicante che incessantemente chiede a Gesù di aprirgli gli occhi, affinché con gli occhi del Signore possa giudicare la sua vita e possa vedere il volto del prossimo, non più un volto da scartare, ma un volto da amare. Non siamo più ciechi quando assumiamo gli occhi stessi di Gesù. Non siamo più nel buio, non siamo più nella notte ma diventiamo capaci di dare concretezza al monito di san Paolo: «Un tempo eravate tenebre, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà giustizia e verità». Ecco il nostro orizzonte: essere figli della luce nella grande notte del mondo contemporaneo. La notte dei tanti che non soffrono più per la mancanza di Dio; la notte dell’indifferenza; la notte della mancanza di passione per la verità; la notte delle funzioni, delle coperture dentro cui nascondere il vuoto e il vizio; la notte dove trionfa soltanto il calcolo e la furbizia e solo ciò che è utile e conveniente; la notte degli ideali di una libertà dove tutto è permesso. E allora vivere da figli della luce vuol dire non camminare nella notte da ciechi. Ciechi che non sanno dove vanno. Ciechi di verità vuol dire accendere negli altri la luce di Cristo, la luce che Cristo ha messo nei nostri occhi; la luce di un Vangelo che è unica risposta alla notte del nostro cuore e alla notte del mondo.
Essere portatori di luce non è uno slogan ma è un mandato che Gesù conferisce a noi, suoi discepoli. Nella lettera enciclica Lumen fidei, il papa scrive con accenti di profondità: «La luce di Gesù brilla come uno specchio sul volto dei cristiani e così si diffonde per riflettere ad altri la sua luce». Come vostro Vescovo vi invito a comprendere che nessun ambito ci è estraneo per immettere la luce di Gesù: portatori di luce nella famiglia. Ci sono ferite, dentro tante famiglie, ferite di sofferenza, di lontananza, di fragilità. Ma è altrettanto vero che l’unico antidoto alla decomposizione è tornare alla radice, è tornare alla trasmissione della fede dei genitori verso i figli, dei figli verso gli anziani. È rendere Cristo il cemento dell’amore indissolubile, soltanto su Cristo regge la famiglia. Portatori di luce nelle relazioni, ricomponendo con la misericordia e il perdono, da persona a persona, relazioni sfilacciate e interrotte. Portatori di luce nella vita sociale, giudicando e agendo con la bussola del Vangelo, non con lo sguardo deformato della logica dell’io contrapposto alla logica del noi. Lasciatemi fare un riferimento semplice e concreto: ricominciamo a guardarci negli occhi. Di fronte ai supermercati, oggi icona delle relazioni, mentre si attende di fare la spesa, si vedono mascherine e occhi che fuggono lo sguardo degli altri. E altri che a loro volta fuggono il nostro sguardo. La paura degli altri è terribile. Ricominciamo a guardarci negli occhi, così prepareremo la luce del domani. Iniziamo da oggi. Nel nostro cammino di credenti alla sequela di Cristo, certamente non mancheranno cadute e smarrimenti. È inevitabile. Ci accompagni e ci sostenga la preghiera del salmo della liturgia di oggi, il salmo della fiducia e della speranza: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Ad acque tranquille mi conduce, rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino. Anche se vado per una valle oscura non temo alcun male perché tu sei con me. Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita». Amen.

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