Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla parrocchia di San Giovanni in Avezzano

«In ogni cuore, perfino nella persona più corrotta e lontana dal bene, è nascosto un anelito di luce. C’è sete di verità, c’è sete di Dio. Ogni persona è chiamata a riscoprire cosa conta veramente, di cosa ha veramente bisogno, cosa fa vivere bene e, nello stesso tempo, cosa sia secondario, e di cosa si possa tranquillamente fare a meno». Queste sono le parole di papa Francesco, parole di questi giorni, dei giorni del dolore. Parole che assumono il tempo della sofferenza che stiamo attraversando e che ci invitano ad una grande e profonda interrogazione interiore. Un’interrogazione che ognuno deve collocare nel silenzio della propria anima. Su quali radici essenziali poggia la mia vita? quanto di superfluo, di inutile, di involucro condiziona il mio agire e le mie scelte? Il mio desiderio di vivere bene è sintonizzato su l’uguale desiderio del mio prossimo, di vivere bene? Poi la domanda che riassume ogni domanda: io, mendicante di speranza, dove posso trovare la risposta al mio desiderio di verità, al mio desiderio di bellezza? Non è un luogo questo approdo del cuore, è una persona: è Gesù, è Cristo, volto del Dio entrato nella storia.
È Cristo vivo, oggi, e cammina con noi. Condivide le nostre stanchezze e percorre le nostre strade e poi si siede. Si siede là dove le strade si incrociano, e attende. Un Dio che attende. Come attese la donna samaritana, seduto al pozzo nel villaggio di Sicar. È mezzogiorno, l’ora del caldo torrido; arriva la donna per attingere acqua. Il Signore le chiede da bere, come un povero che tende la mano. La donna si stupisce, anche perché chi le chiede da bere è un giudeo, e tra giudei e samaritani c’erano barriere secolari di odio. Inizia così un dialogo serrato, da cuore a cuore, fino a quando Gesù dice: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». E allora la donna: «Signore, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non venga più qui ad attingere. So che deve venire il Messia, chiamato Cristo, quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa». Gesù la guarda intensamente e poi le dice «Sono io, che parlo con te». E così la samaritana colma di stupore lascia la sua anfora e corre in città e racconta a tutti del suo incontro. Viaggiando dentro noi stessi per recuperare la distanza che noi spesso poniamo tra il nostro io e noi stessi ci accorgiamo che ci sono tanti modi per andare a Cristo, ma al termine del nostro cammino verso di lui, quando scegliamo di incontrarlo, ci accorgiamo che lui non ci vende, è l’unico che non ci vende, ma ci compra. Ci compra con un amore che trasfigura la libertà del nostro cuore e fa cessare lo smarrimento dei nostri desideri. Ma poi dobbiamo andare oltre.
Nel pozzo di Sicar Gesù chiese da bere, ma anche oggi Gesù non ha smesso di chiedere, non ha smesso di tendere la mano. Perché è lui oggi che continua ad avere sete e fame, è lui oggi che è malato e abbandonato, è lui che è disoccupato. Non è retorica. Il nostro non è il tempo della retorica. Lo ha detto Gesù. «Avete dato da mangiare? Lo avete fatto a me. Avete curato un ammalato? Avete curato me. Tutte le volte che accogliete la mano del povero, avete accolto me». Ognuno di noi ha il suo pozzo presso il quale Cristo lo aspetta per l’incontro decisivo. Certo, Gesù continua ad aspettare. È paziente, è tenace. Ma poi, anche qui, siamo chiamati ad andare oltre. Il cristiano che incontra Cristo lo partecipa. Il cristiano non è un coltivatore di memoria. Cristo non è memoria. Il cristiano è un diffusore, è un seminatore di chi oggi ha incontrato. E se oggi manca questa carica missionaria è perché spesso si vive la fede come una semplice cornice, non come un incontro sovversivo con Gesù. Perché l’incontro con Gesù non lascia mail le cose e le persone come erano prima dell’incontro. Desidero recitare, con voi e per voi, la preghiera di papa Francesco con l’affidamento dell’Italia alla Vergine santissima. «O Maria, tu risplendi sempre nel nostro cammino come segno di salvezza e di speranza. Noi ci affidiamo a te, salute dei malati, che presso la croce sei stata associata al dolore di Gesù, mantenendo ferma la tua fede. Tu, salvezza perché grembo dell’autore della salvezza, sai di che cosa abbiamo bisogno e siamo certi che provvederai perché, come a Cana di Galilea, possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova. Aiutaci, Madre del Divino Amore, a conformarci al volere del Padre e a fare ciò che ci dirà Gesù, che ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori per condurci, attraverso la croce, alla gioia della risurrezione». Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Con le parole dell’apostolo Paolo riconsegniamo la nostra fede a Gesù, Signore e re dell’universo, «per mezzo del quale noi abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati… Immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose, nei cieli e sulla terra… Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono… Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose». Si consuma oggi il tempo dell’anno della fede e si apre, si riapre il tempo mai consumato dell’annuncio della fede, il tempo della missione, della trasmissione della fede. Un tempo affidato alla Chiesa e ad ogni battezzato, ognuno nella sua collocazione. E non a caso il santo padre, nella celebrazione in piazza San Pietro, questa mattina, ha scelto di offrire la sua esortazione Evangelii gaudium a un vescovo, a un presbitero, a un diacono, a religiose e religiosi e a laici. «Io, tu, noi, insieme» per essere portatori del Vangelo, per dirci e ridire che «la fede cristiana non è soltanto una dottrina, un insieme di regole morali, una tradizione. La fede cristiana è un incontro, una relazione con Gesù Cristo. Trasmettere la fede significa creare in ogni luogo e in ogni tempo le condizioni perché questo incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. L’obiettivo di ogni evangelizzazione è la realizzazione di quest’incontro, allo stesso tempo intimo, personale, pubblico e comunitario» (Instrumentum laboris della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi).
Benedetto XVI, indicendo l’anno della fede, aveva ribadito con chiarezza il fondamento della fede stessa: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Lettera enciclica Deus caritas est). Su questo fondamento dobbiamo vivere, dobbiamo operare, dobbiamo costruire. Non su altro. E ripeto, anche secondo la metafora celebrativa del papa, questa mattina, «ognuno nella sua collocazione».
Io, vescovo, innanzitutto, chiamato da Dio e dagli uomini ad essere visto e giudicato sulla mia assunzione o non assunzione degli occhi stessi di Gesù. È vero quanto scrive un profondo e appassionato storico contemporaneo della Chiesa: «Uno scatto di fede visibile evita al vescovo di essere vissuto e di diventare un burocrate…». E aggiunge: «Vescovi più poveri, rispettosi, autorevoli e liberi, perché ciò che è indispensabile è un vescovo capace di esprimere la bastevolezza e la prevalenza della fede. La fede dei vescovi è la via aperta oggi ai credenti per non imprigionarsi nel triste sacco propinato dalla realtà e di cui i media sono il ventilatore: è il solo magistero che non si fa con i piani pastorali, ma con la fedeltà della vita».
Io, presbitero, che ogni giorno devo rinnovare la gioia della decisione di appartenere a Cristo, non sognando situazioni ideali di ministero, ma lieto di amare questa cara nostra terra marsicana, per essere padre e fratello laddove la Chiesa mi ha messo e superando continuamente quelle che un mio confratello ha definito le tre tentazioni: «la tentazione dello scoraggiamento per un ministero circondato da tante fatiche e da tante pretese; la tentazione dello scontento, della mormorazione; la tentazione di ritenere legittimo cercare delle consolazioni compensative».
Io, diacono, sempre in feconda tensione per non parcellizzare, ma rendere simbiotica vita ecclesiale, vita familiare e vita pubblica nell’unica scelta di essere il segno del Cristo che serve e serve con la Parola e con la luce che la Parola ha illuminato il proprio cuore.
Io, religioso; io, religiosa, testimone e continuamente testimone dell’incontro con Cristo che ha capovolto la mia esistenza, rendendola il segno di Gesù obbediente, povero e casto.
Io, laico, invitato a rimettere al centro il primato di Dio in Cristo, perché so che non devo mai presupporre la fede come un fatto scontato. E so che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato affinché continui a guidare il mio cammino. E la fede si nutre e si rafforza quando viene comunicata e non c’è nessuno spazio neutro in questa trasmissione. Dalla famiglia alla società civile perché «la fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma è – vedi Lumen fidei – la dilatazione della vita».
La fede che apre alla speranza, anche nei momenti del dolore e, in questa dimensione, desidero benedire l’associazione Genitori di stelle, che accompagna i genitori dei figli morti in tenera e giovane età. Bertold Brecht diceva: «Non sono i discorsi a far girare i mulini della storia». È vero, ma è altrettanto vero che dobbiamo tutti ritornare all’origine delle parole, liberando le parole da muffa e da polvere per farle impattare con l’oggi dei nostri percorsi. E allora permettetemi, anche se quello che dirò può sembrare settoriale, di entrare in alcuni nodi che siamo chiamati a sciogliere, per farci diventare filiera di Vangelo vissuto. Ridico innanzitutto con la Lumen fidei che «la fede non è soltanto guardare Gesù, ma guardare dallo stesso punto di vista di Gesù, con i suoi occhi. È una partecipazione al modo di vedere di Gesù». Ne siamo convinti? Ci educhiamo ed educhiamo a questi occhi? Non sono domande retoriche. Lasciatemi dire con franchezza: è scandaloso sentire e ascoltare cristiani che parlano degli immigrati e della complessità dei problemi legati all’immigrazione con un vocabolario non intinto nel Vangelo, ma intinto nei luoghi comuni del pregiudizio e della sottocultura del politicamente scorretto. Cristiani che magari dicono: «Ma quanto ci piace papa Francesco…» e poi non entrano nei gesti e nelle parole di papa Francesco che ricosse nei poveri la ricchezza della Chiesa.
E ancora, lasciatemi dire con altrettanta franchezza che ci sono paesi, nella nostra amata diocesi, dove si spendono cifre astronomiche per le feste dei santi. Cifre incredibili, ma non si pensa neanche a ritagliare una parte di quel denaro per entrare nelle case dove si piange per precarietà economica, per mancanza di lavoro, per disagi esistenziali. Se non c’è educazione alla carità, se non c’è il coinvolgimento del territorio, paese per paese, parrocchia per parrocchia, attraverso una Caritas propositiva, localizzata dentro le comunità, appassionata, c’è solo il freddo di una fede ridotta a ritualismo senz’anima. Nella mia prima e volutamente unica lettera pastorale dicevo che «la parrocchia è la casa del pane, dove si mangia il pane eucaristico e da dove si parte per portare il pane nei luoghi della fame». E allora spero di non essere equivocato, in quello che sto per dire: «Nella mia chiesa, nei miei locali piove… C’è da rifare il tetto, c’è da rifare il pavimento… C’è da rifare…». È giusto, la casa del Signore deve essere accogliente e la diocesi farà, ha sempre fatto e fa la sua parte. Ma quel povero non è anche la casa del Signore? Quella famiglia che non ce la fa, non è anche la casa del Signore? E allora, si crei un fondo povertà nelle comunità, alimentato da chi ha, e ci sono quelli che hanno. Ho proposto, durante l’anno della fede, «una famiglia adotti un’altra famiglia». Era una proposta concreta, io l’ho fatta. Ma quanti si sono coinvolti? Quanti desiderano ancora coinvolgersi? Anche nella fede i sono i tempi di recupero, come nelle partite di calcio.
Ci affidiamo a vicenda questo cammino, confidando in uno scatto di traduzione evangelica della fede. Così come vi riaffido la proposta che già vi comunicavo all’inizio dell’anno pastorale: le missioni popolari, missioni popolari parrocchiali, interparrocchiali, foraniali. Missioni popolari nel segno di un riannuncio di Cristo, che tocchi le famiglie, i giovani, le nuove generazioni, il nostro popolo, affinché il popolo di Dio superi stanchezze e nella fede ritrovi il senso del vivere, il senso profondo ed essenziale.
Lasciatemi dire anche qualche confidenza. Sempre ringraziando il Signore per le ricchezze spirituali della nostra diocesi, una bella diocesi che dobbiamo amare e far crescere insieme, vi confido una delusione: quella di non aver realizzato durante l’anno della fede gli esercizi spirituali per sacerdoti e laici in Terrasanta. Perché non si è fatto? Perché, a mio parere, non è stato sufficientemente trasmesso. E magari è affogato nel mare delle tante pur lodevoli iniziative spirituali personali o iniziative di viaggi vari nelle varie espressioni della Chiesa locale. Mentre, invece, ringrazio il Signore per aver vissuto con sacerdoti e laici la gioia del pellegrinaggio alla tomba di don Tonino Bello. Gli esercizi spirituali per sacerdoti e laici, in Terrasanta, saranno riproposti, a Dio piacendo, nel corso del 2014.
Ma ora, si entri nella mobilitazione per la visita che faremo, come diocesi, a papa Francesco, partecipando all’udienza del 26 febbraio prossimo, celebrando tutti insieme l’Eucaristia nel pomeriggio. Daremo più avanti tutte le indicazioni a riguardo, ma sin da ora parta il coinvolgimento di tutta la Chiesa locale. Al termine di questa celebrazione vi verrà consegnato un pieghevole, elaborato dal Consiglio pastorale diocesano e dalla Consulta delle aggregazioni laicali, che contiene tutti gli appuntamenti diocesani per questo anno pastorale 2013/2014. Nei prossimi giorni, i pieghevoli saranno a disposizione anche nelle parrocchie. Tra le proposte più immediate incluse c’è anche la prima delle conferenze d’Avvento che terrò dopo domani, martedì 26 novembre alle ore 21, al castello Orsini, dal titolo Con papa Francesco, verso l’Avvento, una riflessione da parte del vescovo per cercare di capire dal profondo papa Francesco. L’altra conferenza, in pieno Avvento, il 13 dicembre.
In conclusione, lasciamoci avvolgere dalla primavera del pontificato di papa Francesco, non rimanendo nell’autunno e nell’inverno dei nostri mondani scontenti. Faccio mia una riflessione dello stesso autore che ho citato precedentemente: «Le primavere della Chiesa arrivano sempre senza segni premonitori… Una primavera che per qualcuno è già arrivato della fine del mondo, o forse, della fine di un mondo che se sarà sfidato non si arrenderà, se sarà sconfitto non sarà mai rimpianto». Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

La festa dell’Epifania ripropone alla nostra fede il racconto dei Magi, un racconto che unisce la terra e il cielo, l’eterno e il tempo, il mondo dei vicini e il mondo dei lontani da Dio. Al centro c’è sempre il Cristo: è lui che i Magi sono venuti a cercare e adorare. Un bambino come tutti, un uomo come tutti; segnato dalle frontiere del tempo, ma insieme è Dio che nasconde in sé l’infinito: Dio venuto a redimere l’uomo. L’Epifania del Dio bambino ai Magi, ovvero il suo manifestarsi ai lontani e ai pagani, è il primo lampo di luce che squarcia il velo che separava e nascondeva il mistero di Dio. Questa lacerazione del velo sarà totale nella Pasqua, quando, con la risurrezione, Cristo porterà a compimento la redenzione, rompendo le barriere della vita e della morte. Così l’Epifania è la profezia della Pasqua, è la luce della Pasqua annunciata.
Gerusalemme aveva ricevuto dai profeti un invito: «Àlzati, rivestiti di luce!» (Is 60,1). Ma la città non seguì quella luce perché addormentata. Non la seguì Erode, allarmato per il proprio potere e impaurito da situazioni impreviste, e il suo accecamento lo porterà all’ordine di uccidere il bambino. Non la seguirono gli scribi, i sacerdoti, gli studiosi che leggevano i libri, ma non capivano il nuovo che irrompeva. Avevano gli occhi tappati, avevano gli occhi sigillati, incapaci di spalancarli dinanzi alle sorprese di Dio. Non capivano che per incontrare la verità bisogna mettersi in movimento, bisogna mettersi sulla strada. È sempre così: per incontrare la verità bisogna mettere in movimento il cuore, lasciando quanto appesantisce e non fa battere il cuore verso il desiderio che riassume tutti i desideri.
I Magi, al contrario, non si sono accontentati di rigirarsi tra le mani quello che avevano, i beni che avevano, ma aprirono le mani per incontrare e possedere qualcosa di più grande, di più vero, di più alto. Sono andati al di là di ciò che appare, oltre il piccolo sguardo che segna l’orizzonte. Hanno avuto la voglia della verità. Non hanno fatto sondaggi d’opinione, perché tutto all’apparenza era contro di loro. Non si sono adattati a quella anemia dell’anima che è l’abitudine. Si sono buttati verso l’ignoto e alla fine si sono buttati in ginocchio dinanzi a quel Dio che avevano lungamente inseguito perché era lui, Dio, che li aveva inseguiti, che li aveva cercati facendo muovere il loro cuore. Era un Dio bambino, debole, inerme come tutti i bambini, destinato alla nudità estrema della croce e alla bellezza della risurrezione.
Nella nostra fede i Magi non sono presenze che durano un giorno e che si allontaneranno da noi questa notte. I Magi non appartengono ad una data del calendario, ma rappresentano una segnaletica che ci indica come arrivare a Dio, come arrivare all’incontro con Dio. Una segnaletica che non dobbiamo mai ignorare. Una segnaletica che a me, e a ciascuno di voi, dice: «Sappi leggere i segni che Dio lascia nel suo cammino. Abbi uno sguardo diverso sulla realtà, capace di vedere ciò che è nel profondo delle cose: Dio passa, passa continuamente. Non essere distratto. Tieni le distanze da una cultura, da una mentalità che oggi resta uguale a quella di ieri e che cerca di uccidere la fede che è dentro di te, rendendo Gesù soltanto una bella favola incantata. Non essere complice di questa cultura che ti spegne la voglia della verità, perché la verità c’è ed è una persona: Gesù. Non essere un sedentario della fede, accontentandoti di credere a distanza: i Magi non adorarono a distanza». La fede è passione d’amore, è andare sempre al di là della semplice pratica religiosa. È incontro con le grandi domande sul destino dell’uomo sul senso della vita e della morte, incontro che trova luce soltanto nel Vangelo di Gesù e della Chiesa. Altrimenti la fede rischia di essere una serie di episodi e di emozioni e ridursi a folclore. Ma la fede non è né folclore, né emozione.
E se la fede è passione d’amore, non posso rinchiuderla nel cassetto, ma devo sentirmi responsabile di contagiare con la mia fede ogni persona che incontro: e chi mi incontra, deve incontrare un credente che è stato rivoltato da Gesù. Sì, rivoltato da Gesù. Il vostro vescovo vi dice e dice a se stesso: non siate sedentari di un cristianesimo sedentario. Cercate Gesù nella preghiera, nell’Eucaristia domenicale, nel sacramento del Perdono; cercatelo nella sua Parola, in quella Scrittura che è grembo di ogni sapienza non mercificata. Non mettete in contrasto l’amore di Dio e la compassione per l’uomo, perché da quando Dio è diventato uomo, l’uomo è il tabernacolo di Dio. E chinarsi sull’uomo sofferente è chinarsi su Dio. Amate ogni persona, non ritenete nessuno escluso dall’amore, perché in Cristo, Dio e l’uomo sono uniti e compenetrati in eterno. Se questo non avvenisse, la fede diventa un rottame, la preghiera un sospiro ipocrita, il Vangelo una cornice letteraria.
Sia questo il messaggio che vi affido, nella solenne celebrazione dell’Epifania, e che Gesù sia in noi la luce che in noi non spenga mai e illumini i giorni, i mesi e gli anni di tutte le stagioni della nostra vita.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Nel cuore del tempo santo d’Avvento siamo raggiunti dal mistero di Maria, preservata dal peccato delle origini, perché il suo grembo, nei disegni della storia della salvezza, potesse accogliere Dio fatto carne, Dio che entra nel tempo dell’uomo per redimere l’uomo. E noi, sempre più incapaci di stupore, sempre più avvitati negli aridi percorsi del quotidiano, siamo chiamati a risvegliare lo stupore dinanzi a una donna che, nella piena libertà, ha permesso a Dio di rovesciare il vecchio mondo del peccato. Lo stesso stupore che afferrò nel lontano 1913 Paul Claudel. Nel pieno del suo cammino di conversione, si recò pellegrino a Chartres e chiese asilo nel cavo della mano di Maria, e in questa mano depose il suo «vecchio cuore che faceva il ribelle». E queste parole, parole tra le più alte che la poesia abbia saputo produrre, oggi si incontrano con la liturgia e diventano perforazione della nostra vita. All’origine della storia accade la ribellione: l’uomo al posto di Dio. E poi, una millenaria catena di ribellioni: gli uomini al posto di Dio. E il cuore del mondo invecchia perché non batte più con il cuore di Dio.
Ma, nella pienezza dei tempi Dio incontra una donna che non si ribella, ma si arrende al suo amore, alla sua misericordia. Una donna che non mette se stessa al posto di Dio, ma se stessa nel cuore di Dio. «Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua Parola» (Lc 1,38). Io Maria, la serva del Signore, non ribelle, ma serva, serva di ciò che Dio vuole con me e per me. Serva del Figlio di Dio che si incarnerà dentro di me. E si aprì l’alba della redenzione dopo la notte della perdizione.
Le nostre ribellioni che ci invecchiano il cuore… Dobbiamo riconoscerle, dobbiamo ammetterle… Le nostre non sono ribellioni aperte, declamate, gridate. Sono semplicemente quei nascondimenti che non permettono a Dio di trovarci, di incontrarci. È il ripetersi del confronto tra Dio e il primo Adamo. Dio lo chiama e gli dice: «Dove sei?» (Gen 3,9). E Adamo risponde: «Ho avuto paura… e mi sono nascosto» (Gen 3,10).
Siamo continuamente inseguiti dall’amore di Dio, dalla misericordia di Dio che continuamente ci raggiunge nell’Eucaristia, nel perdono della Confessione, nella verità del Vangelo, e noi ci nascondiamo. Ci nascondiamo perché pensiamo che Dio ci rubi la libertà. Ci nascondiamo perché consideriamo la sua Parola un peso. Ci nascondiamo perché il camminare con Dio ci appare faticoso. Ci nascondiamo semplicemente perché non capiamo che la fede significa buttarci nelle braccia di Dio, nella fiducia più piena e gioiosa.
Come Maria che si lasciò abbracciare da Dio, non si divincolò dalle braccia di Dio, e abbracciò Dio in una limpidezza di fiducia che attraversò tutte le stagioni della Sua vita terrena, da Nazaret a Betlemme, da Betlemme al Calvario, e dal Calvario alla luce della risurrezione. E così, guardando la nostra povera fede, non possiamo che affidarci a lei, in un affidamento d’intercessione affinché le mie e le vostre biografie non siano biografie di fuga da Dio, ma di riconsegna a Dio del nostro cuore, del nostro pensiero. Cuore e pensiero che tornino ad essere modellati dal Vangelo e solo dal Vangelo.
Nella sua esortazione apostolica papa Francesco ci ha detto: «Come una vera Madre, cammina con noi, combatte con noi, ed infonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio». E così, si allungano i nostri affidamenti a Maria, perché nel suo cuore di Madre tutti entrano e nessuno esce. Le affidiamo le nostre famiglie: siano i luoghi dove si mangia il pane dell’amore stabile, della tenerezza e dove ai figli viene donato il nutrimento più vero, che non si rafferma: Gesù, pane di vita eterna. Le affidiamo i nostri ragazzi, i nostri giovani ingannati da una società che li vuole solo in parcheggio di ideali: trovino risposta al bisogno drammatico di lavoro, e trovino nella fede il coraggio di non cedere alla mercificazione dei desideri, alla volgarizzazione del corpo e dell’anima, e la capacità di scommettere che tutto può cambiare con la forza del Vangelo vissuto e trasmesso. A Maria affidiamo i nostri anziani, i nostri nonni. Siano custoditi nella case, come si custodisce il tesoro più prezioso, perché in ogni loro ruga è scritta la grammatica della nostra storia. Siano custoditi nella case, loro che hanno generato una casa. A Maria affidiamo la nostra città, i paesi della nostra Marsica: noi li abitiamo, ma dobbiamo abitarli con la sapienza di capire che non siamo qui per caso, siamo stati collocati da Dio affinché ciascuno diventi un dono per l’altro, in una comunità di volti, dove ogni volto ha il suo colore che deve accogliere il colore dell’altro e non sfruttare l’altro. Solo questa cultura dell’accoglienza, della responsabilità ci può liberare dai tristi percorsi delle diffidenze, delle chiusure, dei rancori, dei pregiudizi. A Maria affidiamo i nostri malati, quanti vivono il mistero della sofferenza: abbiano sempre accanto cristiani che si rendano capaci di vedere in loro la carne stessa di Cristo sofferente.
La riflessione ora diventa preghiera. E la nostra sia la preghiera che papa Benedetto e papa Francesco ci hanno consegnato nella Lumen fidei: «Aiuta, o Madre, la nostra fede! Apri il nostro ascolto alla Parola, perché riconosciamo la voce di Dio e la sua chiamata… Aiutaci a lasciarci toccare dal suo amore, perché possiamo toccarlo con la fede. Aiutaci ad affidarci pienamente a lui, a credere nel suo amore, soprattutto nei momenti di tribolazione e di croce, quando la nostra fede è chiamata a maturare! Semina nella nostra fede la gioia del Risorto. Ricordaci che chi crede non è mai solo. Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché egli sia luce sul nostro cammino. E che questa luce della fede cresca sempre in noi, finché arrivi quel giorno senza tramonto, che è lo stesso Cristo, il Figlio tuo, nostro Signore».

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