Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

«Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica». L’invocazione del salmo liturgico incrocia le nostre personali invocazioni, e diventa un grido che raccoglie i nostri smarrimenti, un grido che chiede e che implora che non venga meno la nostra fede. Una fede che illumini il mistero dell’eterna presenza di Cristo nella nostra storia e sappia unire la passione del Signore alla passione del nostro popolo. Il nostro è veramente il tempo in cui la fede viene messa a dura prova, ma è anche il temo del credere. Come scriveva don Primo Mazzolari, in pagine profetiche aperte ad ogni epoca: «È tempo di credere, è tempo di fede. Non esistono tempi ordinari, esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora. Tutti i tempi sono tempi straordinari. Gesù è il pellegrino di ogni strada che rinnova la sua presenza. Lui, il nostro Dio fatto uomo, lui presente su ogni strada, in ogni uomo, in ogni creatura, in ogni cosa, perché io non sia più solo. Con i suoi occhi posso capire anche la morte. Senza di lui non capisco niente. Se non soffro insieme a tutti non sono un cristiano. Se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle». Profonda l’affermazione: «Con gli occhi di Cristo posso capire anche la morte».
È vero, non posso spiegarla, ma posso capirla nel suo mistero; oltre le ragioni medico-scientifiche e non togliendo alla morte la sua drammaticità. Oggi stiamo vivendo tutti l’irruzione drammatica della morte. Capirla perché «la morte ci interroga come viandanti nello stretto marciapiede della terra», direbbe san Giovanni Paolo II, viandanti consapevoli che il viaggio termina. E dopo? E qui siamo avvolti dalla pagina di vangelo. Siamo avvolti dalla convinzione che in questa pagina di vangelo c’è tutto il mistero e la verità della morte e della vita. Siamo avvolti per entrare nel nostro tempo e riportare il vangelo al nostro tempo, anche dalla commozione e dal pianto di Gesù, dinanzi alla morte di Lazzaro. Siamo avvolti dal vertiginoso dialogo tra Marta ed il Signore. Gesù le dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo». Ecco la verità, immensa e scandalosa per chi non crede. Gesù, con la sua risurrezione, non solo ha vinto la sua morte, ma ha vinto la morte di tutti. Ogni foglia che cade non marcisce ma è avvolta dal vento della risurrezione. So che diventa difficile approdare a questi pensieri mentre ogni giorno ascoltiamo il numero dei morti e dei defunti, a causa del male terribile che ci è piombato addosso, mentre medici e infermieri tentano di strappare alla morte chi è stato contagiato, mentre preghiamo «liberaci dal male». È vero, siamo tutti nel vortice del turbamento, ma dentro questo vortice chiediamo al Signore il dono di piangere con chi piange, il dono di essere uniti nella sincera commozione di cuore, perché siamo legati da un destino comune: siamo tutti figli della stessa famiglia. E se non lo capiamo adesso, quando lo capiremo? Chiediamo al Signore il dono di non essere smemorati, di ripensare al mistero reale del nostro esistere.
La fragilità, compresa la fragilità estrema della morte, è parte costitutiva del nostro essere creature. Ma la morte è anche un parto. È il parto che ci genera all’eternità. Un’eternità che ogni frammento ricompone nel tutto che è Dio. Ed è a Dio che ogni giorno dobbiamo restituire la nostra vita, a lui che ce l’ha data, restituirla rendendola ogni giorno un canto di amore, in attesa dell’ultima restituzione. La grandezza della vita è tutta nell’amore. La miseria di una vita è l’essere rattrappiti di fronte allo specchio del proprio io. Dobbiamo camminare facendoci toccare dal vento e dal soffio dell’eternità. La fede non è un diversivo spirituale, il viaggio della vita verso il Padre porta a vedere il Padre in ogni uomo, perché lui ci riconsegna ogni uomo come fratello. Dobbiamo tendere il cuore ai nostri morti, a quelli di casa e a tutti gli altri. Tutti ci appartengono. Chiediamo ai nostri morti di parlarci. La loro voce è una voce sottile, va percepita nel silenzio. E cosa ci dicono i nostri morti? Ci ridonano all’amore che hanno sempre avuto per noi ma ci dicono anche «Tutto con Dio e nulla senza Dio». Questo è il senso della vita. Ci dicono che il vangelo è la mappa che orienta il cammino nella notte del mondo. E allora riprendiamo la speranza che non muore, perché noi siamo quelli che hanno speranza, noi non siamo ciechi che vagano senza meta. Noi siamo quelli che dicono, dinanzi alle tombe dei nostri cari – alle tombe lontane o vicine –, le stesse parole di Gesù dinanzi alla tomba di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno».

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita; è un pover’uomo costretto a mendicare per sopravvivere: non conosce la bellezza della luce, la poesia dei colori, il sorriso dei volti. È un emarginato; è un escluso avvolto nella solitudine; è un uomo marchiato, bollato. Ma Gesù non passa oltre. Tutti passano oltre. Gesù si ferma, si avvicina, lo tocca con tenerezza e lo guarisce. Mentre tutti i discepoli e i farisei discutono sulla condizione del cieco, Gesù gli apre gli occhi… e gli occhi passano dall’oscurità alla luce. E non solo alla luce del corpo ma anche e soprattutto alla luce della fede. Il dialogo tra il Signore e il mendicante è di una bellezza vertiginosa: «Credi nel Figlio dell’uomo?». «E chi è?», «Tu lo hai visto, è colui che ti parla». «Io credo, Signore», e si butta in ginocchio. Dalla notte del cuore il mendicante entra nel giorno della verità. Così la narrazione del Vangelo entra nella nostra vita e diventa la narrazione della nostra speranza.
La fede non è un possesso tranquillo, non è un cuscino su cui riposare, non è neanche un tranquillante della coscienza. La fede è continua domanda, continua interrogazione affinché Dio ci apra gli occhi per riconoscere in Gesù la luce vera dell’esistenza. La fede è, in questo momento di dolore, avvertire la presenza di Cristo che porta la nostra stessa croce, che condivide il nostro stesso dolore. La nostra croce è la croce di Gesù, le nostre lacrime sono le lacrime di Gesù. Il cristiano è un mendicante che incessantemente chiede a Gesù di aprirgli gli occhi, affinché con gli occhi del Signore possa giudicare la sua vita e possa vedere il volto del prossimo, non più un volto da scartare, ma un volto da amare. Non siamo più ciechi quando assumiamo gli occhi stessi di Gesù. Non siamo più nel buio, non siamo più nella notte ma diventiamo capaci di dare concretezza al monito di san Paolo: «Un tempo eravate tenebre, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà giustizia e verità». Ecco il nostro orizzonte: essere figli della luce nella grande notte del mondo contemporaneo. La notte dei tanti che non soffrono più per la mancanza di Dio; la notte dell’indifferenza; la notte della mancanza di passione per la verità; la notte delle funzioni, delle coperture dentro cui nascondere il vuoto e il vizio; la notte dove trionfa soltanto il calcolo e la furbizia e solo ciò che è utile e conveniente; la notte degli ideali di una libertà dove tutto è permesso. E allora vivere da figli della luce vuol dire non camminare nella notte da ciechi. Ciechi che non sanno dove vanno. Ciechi di verità vuol dire accendere negli altri la luce di Cristo, la luce che Cristo ha messo nei nostri occhi; la luce di un Vangelo che è unica risposta alla notte del nostro cuore e alla notte del mondo.
Essere portatori di luce non è uno slogan ma è un mandato che Gesù conferisce a noi, suoi discepoli. Nella lettera enciclica Lumen fidei, il papa scrive con accenti di profondità: «La luce di Gesù brilla come uno specchio sul volto dei cristiani e così si diffonde per riflettere ad altri la sua luce». Come vostro Vescovo vi invito a comprendere che nessun ambito ci è estraneo per immettere la luce di Gesù: portatori di luce nella famiglia. Ci sono ferite, dentro tante famiglie, ferite di sofferenza, di lontananza, di fragilità. Ma è altrettanto vero che l’unico antidoto alla decomposizione è tornare alla radice, è tornare alla trasmissione della fede dei genitori verso i figli, dei figli verso gli anziani. È rendere Cristo il cemento dell’amore indissolubile, soltanto su Cristo regge la famiglia. Portatori di luce nelle relazioni, ricomponendo con la misericordia e il perdono, da persona a persona, relazioni sfilacciate e interrotte. Portatori di luce nella vita sociale, giudicando e agendo con la bussola del Vangelo, non con lo sguardo deformato della logica dell’io contrapposto alla logica del noi. Lasciatemi fare un riferimento semplice e concreto: ricominciamo a guardarci negli occhi. Di fronte ai supermercati, oggi icona delle relazioni, mentre si attende di fare la spesa, si vedono mascherine e occhi che fuggono lo sguardo degli altri. E altri che a loro volta fuggono il nostro sguardo. La paura degli altri è terribile. Ricominciamo a guardarci negli occhi, così prepareremo la luce del domani. Iniziamo da oggi. Nel nostro cammino di credenti alla sequela di Cristo, certamente non mancheranno cadute e smarrimenti. È inevitabile. Ci accompagni e ci sostenga la preghiera del salmo della liturgia di oggi, il salmo della fiducia e della speranza: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla. Ad acque tranquille mi conduce, rinfranca l’anima mia. Mi guida per il giusto cammino. Anche se vado per una valle oscura non temo alcun male perché tu sei con me. Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita». Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla parrocchia di San Giovanni in Avezzano

«In ogni cuore, perfino nella persona più corrotta e lontana dal bene, è nascosto un anelito di luce. C’è sete di verità, c’è sete di Dio. Ogni persona è chiamata a riscoprire cosa conta veramente, di cosa ha veramente bisogno, cosa fa vivere bene e, nello stesso tempo, cosa sia secondario, e di cosa si possa tranquillamente fare a meno». Queste sono le parole di papa Francesco, parole di questi giorni, dei giorni del dolore. Parole che assumono il tempo della sofferenza che stiamo attraversando e che ci invitano ad una grande e profonda interrogazione interiore. Un’interrogazione che ognuno deve collocare nel silenzio della propria anima. Su quali radici essenziali poggia la mia vita? quanto di superfluo, di inutile, di involucro condiziona il mio agire e le mie scelte? Il mio desiderio di vivere bene è sintonizzato su l’uguale desiderio del mio prossimo, di vivere bene? Poi la domanda che riassume ogni domanda: io, mendicante di speranza, dove posso trovare la risposta al mio desiderio di verità, al mio desiderio di bellezza? Non è un luogo questo approdo del cuore, è una persona: è Gesù, è Cristo, volto del Dio entrato nella storia.
È Cristo vivo, oggi, e cammina con noi. Condivide le nostre stanchezze e percorre le nostre strade e poi si siede. Si siede là dove le strade si incrociano, e attende. Un Dio che attende. Come attese la donna samaritana, seduto al pozzo nel villaggio di Sicar. È mezzogiorno, l’ora del caldo torrido; arriva la donna per attingere acqua. Il Signore le chiede da bere, come un povero che tende la mano. La donna si stupisce, anche perché chi le chiede da bere è un giudeo, e tra giudei e samaritani c’erano barriere secolari di odio. Inizia così un dialogo serrato, da cuore a cuore, fino a quando Gesù dice: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna». E allora la donna: «Signore, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non venga più qui ad attingere. So che deve venire il Messia, chiamato Cristo, quando egli verrà ci annuncerà ogni cosa». Gesù la guarda intensamente e poi le dice «Sono io, che parlo con te». E così la samaritana colma di stupore lascia la sua anfora e corre in città e racconta a tutti del suo incontro. Viaggiando dentro noi stessi per recuperare la distanza che noi spesso poniamo tra il nostro io e noi stessi ci accorgiamo che ci sono tanti modi per andare a Cristo, ma al termine del nostro cammino verso di lui, quando scegliamo di incontrarlo, ci accorgiamo che lui non ci vende, è l’unico che non ci vende, ma ci compra. Ci compra con un amore che trasfigura la libertà del nostro cuore e fa cessare lo smarrimento dei nostri desideri. Ma poi dobbiamo andare oltre.
Nel pozzo di Sicar Gesù chiese da bere, ma anche oggi Gesù non ha smesso di chiedere, non ha smesso di tendere la mano. Perché è lui oggi che continua ad avere sete e fame, è lui oggi che è malato e abbandonato, è lui che è disoccupato. Non è retorica. Il nostro non è il tempo della retorica. Lo ha detto Gesù. «Avete dato da mangiare? Lo avete fatto a me. Avete curato un ammalato? Avete curato me. Tutte le volte che accogliete la mano del povero, avete accolto me». Ognuno di noi ha il suo pozzo presso il quale Cristo lo aspetta per l’incontro decisivo. Certo, Gesù continua ad aspettare. È paziente, è tenace. Ma poi, anche qui, siamo chiamati ad andare oltre. Il cristiano che incontra Cristo lo partecipa. Il cristiano non è un coltivatore di memoria. Cristo non è memoria. Il cristiano è un diffusore, è un seminatore di chi oggi ha incontrato. E se oggi manca questa carica missionaria è perché spesso si vive la fede come una semplice cornice, non come un incontro sovversivo con Gesù. Perché l’incontro con Gesù non lascia mail le cose e le persone come erano prima dell’incontro. Desidero recitare, con voi e per voi, la preghiera di papa Francesco con l’affidamento dell’Italia alla Vergine santissima. «O Maria, tu risplendi sempre nel nostro cammino come segno di salvezza e di speranza. Noi ci affidiamo a te, salute dei malati, che presso la croce sei stata associata al dolore di Gesù, mantenendo ferma la tua fede. Tu, salvezza perché grembo dell’autore della salvezza, sai di che cosa abbiamo bisogno e siamo certi che provvederai perché, come a Cana di Galilea, possa tornare la gioia e la festa dopo questo momento di prova. Aiutaci, Madre del Divino Amore, a conformarci al volere del Padre e a fare ciò che ci dirà Gesù, che ha preso su di sé le nostre sofferenze e si è caricato dei nostri dolori per condurci, attraverso la croce, alla gioia della risurrezione». Amen.

Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Con le parole dell’apostolo Paolo riconsegniamo la nostra fede a Gesù, Signore e re dell’universo, «per mezzo del quale noi abbiamo la redenzione e il perdono dei peccati… Immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose, nei cieli e sulla terra… Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono… Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è il principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose». Si consuma oggi il tempo dell’anno della fede e si apre, si riapre il tempo mai consumato dell’annuncio della fede, il tempo della missione, della trasmissione della fede. Un tempo affidato alla Chiesa e ad ogni battezzato, ognuno nella sua collocazione. E non a caso il santo padre, nella celebrazione in piazza San Pietro, questa mattina, ha scelto di offrire la sua esortazione Evangelii gaudium a un vescovo, a un presbitero, a un diacono, a religiose e religiosi e a laici. «Io, tu, noi, insieme» per essere portatori del Vangelo, per dirci e ridire che «la fede cristiana non è soltanto una dottrina, un insieme di regole morali, una tradizione. La fede cristiana è un incontro, una relazione con Gesù Cristo. Trasmettere la fede significa creare in ogni luogo e in ogni tempo le condizioni perché questo incontro tra gli uomini e Gesù Cristo avvenga. L’obiettivo di ogni evangelizzazione è la realizzazione di quest’incontro, allo stesso tempo intimo, personale, pubblico e comunitario» (Instrumentum laboris della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi).
Benedetto XVI, indicendo l’anno della fede, aveva ribadito con chiarezza il fondamento della fede stessa: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Lettera enciclica Deus caritas est). Su questo fondamento dobbiamo vivere, dobbiamo operare, dobbiamo costruire. Non su altro. E ripeto, anche secondo la metafora celebrativa del papa, questa mattina, «ognuno nella sua collocazione».
Io, vescovo, innanzitutto, chiamato da Dio e dagli uomini ad essere visto e giudicato sulla mia assunzione o non assunzione degli occhi stessi di Gesù. È vero quanto scrive un profondo e appassionato storico contemporaneo della Chiesa: «Uno scatto di fede visibile evita al vescovo di essere vissuto e di diventare un burocrate…». E aggiunge: «Vescovi più poveri, rispettosi, autorevoli e liberi, perché ciò che è indispensabile è un vescovo capace di esprimere la bastevolezza e la prevalenza della fede. La fede dei vescovi è la via aperta oggi ai credenti per non imprigionarsi nel triste sacco propinato dalla realtà e di cui i media sono il ventilatore: è il solo magistero che non si fa con i piani pastorali, ma con la fedeltà della vita».
Io, presbitero, che ogni giorno devo rinnovare la gioia della decisione di appartenere a Cristo, non sognando situazioni ideali di ministero, ma lieto di amare questa cara nostra terra marsicana, per essere padre e fratello laddove la Chiesa mi ha messo e superando continuamente quelle che un mio confratello ha definito le tre tentazioni: «la tentazione dello scoraggiamento per un ministero circondato da tante fatiche e da tante pretese; la tentazione dello scontento, della mormorazione; la tentazione di ritenere legittimo cercare delle consolazioni compensative».
Io, diacono, sempre in feconda tensione per non parcellizzare, ma rendere simbiotica vita ecclesiale, vita familiare e vita pubblica nell’unica scelta di essere il segno del Cristo che serve e serve con la Parola e con la luce che la Parola ha illuminato il proprio cuore.
Io, religioso; io, religiosa, testimone e continuamente testimone dell’incontro con Cristo che ha capovolto la mia esistenza, rendendola il segno di Gesù obbediente, povero e casto.
Io, laico, invitato a rimettere al centro il primato di Dio in Cristo, perché so che non devo mai presupporre la fede come un fatto scontato. E so che questo dono di Dio deve essere nutrito e rafforzato affinché continui a guidare il mio cammino. E la fede si nutre e si rafforza quando viene comunicata e non c’è nessuno spazio neutro in questa trasmissione. Dalla famiglia alla società civile perché «la fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma è – vedi Lumen fidei – la dilatazione della vita».
La fede che apre alla speranza, anche nei momenti del dolore e, in questa dimensione, desidero benedire l’associazione Genitori di stelle, che accompagna i genitori dei figli morti in tenera e giovane età. Bertold Brecht diceva: «Non sono i discorsi a far girare i mulini della storia». È vero, ma è altrettanto vero che dobbiamo tutti ritornare all’origine delle parole, liberando le parole da muffa e da polvere per farle impattare con l’oggi dei nostri percorsi. E allora permettetemi, anche se quello che dirò può sembrare settoriale, di entrare in alcuni nodi che siamo chiamati a sciogliere, per farci diventare filiera di Vangelo vissuto. Ridico innanzitutto con la Lumen fidei che «la fede non è soltanto guardare Gesù, ma guardare dallo stesso punto di vista di Gesù, con i suoi occhi. È una partecipazione al modo di vedere di Gesù». Ne siamo convinti? Ci educhiamo ed educhiamo a questi occhi? Non sono domande retoriche. Lasciatemi dire con franchezza: è scandaloso sentire e ascoltare cristiani che parlano degli immigrati e della complessità dei problemi legati all’immigrazione con un vocabolario non intinto nel Vangelo, ma intinto nei luoghi comuni del pregiudizio e della sottocultura del politicamente scorretto. Cristiani che magari dicono: «Ma quanto ci piace papa Francesco…» e poi non entrano nei gesti e nelle parole di papa Francesco che ricosse nei poveri la ricchezza della Chiesa.
E ancora, lasciatemi dire con altrettanta franchezza che ci sono paesi, nella nostra amata diocesi, dove si spendono cifre astronomiche per le feste dei santi. Cifre incredibili, ma non si pensa neanche a ritagliare una parte di quel denaro per entrare nelle case dove si piange per precarietà economica, per mancanza di lavoro, per disagi esistenziali. Se non c’è educazione alla carità, se non c’è il coinvolgimento del territorio, paese per paese, parrocchia per parrocchia, attraverso una Caritas propositiva, localizzata dentro le comunità, appassionata, c’è solo il freddo di una fede ridotta a ritualismo senz’anima. Nella mia prima e volutamente unica lettera pastorale dicevo che «la parrocchia è la casa del pane, dove si mangia il pane eucaristico e da dove si parte per portare il pane nei luoghi della fame». E allora spero di non essere equivocato, in quello che sto per dire: «Nella mia chiesa, nei miei locali piove… C’è da rifare il tetto, c’è da rifare il pavimento… C’è da rifare…». È giusto, la casa del Signore deve essere accogliente e la diocesi farà, ha sempre fatto e fa la sua parte. Ma quel povero non è anche la casa del Signore? Quella famiglia che non ce la fa, non è anche la casa del Signore? E allora, si crei un fondo povertà nelle comunità, alimentato da chi ha, e ci sono quelli che hanno. Ho proposto, durante l’anno della fede, «una famiglia adotti un’altra famiglia». Era una proposta concreta, io l’ho fatta. Ma quanti si sono coinvolti? Quanti desiderano ancora coinvolgersi? Anche nella fede i sono i tempi di recupero, come nelle partite di calcio.
Ci affidiamo a vicenda questo cammino, confidando in uno scatto di traduzione evangelica della fede. Così come vi riaffido la proposta che già vi comunicavo all’inizio dell’anno pastorale: le missioni popolari, missioni popolari parrocchiali, interparrocchiali, foraniali. Missioni popolari nel segno di un riannuncio di Cristo, che tocchi le famiglie, i giovani, le nuove generazioni, il nostro popolo, affinché il popolo di Dio superi stanchezze e nella fede ritrovi il senso del vivere, il senso profondo ed essenziale.
Lasciatemi dire anche qualche confidenza. Sempre ringraziando il Signore per le ricchezze spirituali della nostra diocesi, una bella diocesi che dobbiamo amare e far crescere insieme, vi confido una delusione: quella di non aver realizzato durante l’anno della fede gli esercizi spirituali per sacerdoti e laici in Terrasanta. Perché non si è fatto? Perché, a mio parere, non è stato sufficientemente trasmesso. E magari è affogato nel mare delle tante pur lodevoli iniziative spirituali personali o iniziative di viaggi vari nelle varie espressioni della Chiesa locale. Mentre, invece, ringrazio il Signore per aver vissuto con sacerdoti e laici la gioia del pellegrinaggio alla tomba di don Tonino Bello. Gli esercizi spirituali per sacerdoti e laici, in Terrasanta, saranno riproposti, a Dio piacendo, nel corso del 2014.
Ma ora, si entri nella mobilitazione per la visita che faremo, come diocesi, a papa Francesco, partecipando all’udienza del 26 febbraio prossimo, celebrando tutti insieme l’Eucaristia nel pomeriggio. Daremo più avanti tutte le indicazioni a riguardo, ma sin da ora parta il coinvolgimento di tutta la Chiesa locale. Al termine di questa celebrazione vi verrà consegnato un pieghevole, elaborato dal Consiglio pastorale diocesano e dalla Consulta delle aggregazioni laicali, che contiene tutti gli appuntamenti diocesani per questo anno pastorale 2013/2014. Nei prossimi giorni, i pieghevoli saranno a disposizione anche nelle parrocchie. Tra le proposte più immediate incluse c’è anche la prima delle conferenze d’Avvento che terrò dopo domani, martedì 26 novembre alle ore 21, al castello Orsini, dal titolo Con papa Francesco, verso l’Avvento, una riflessione da parte del vescovo per cercare di capire dal profondo papa Francesco. L’altra conferenza, in pieno Avvento, il 13 dicembre.
In conclusione, lasciamoci avvolgere dalla primavera del pontificato di papa Francesco, non rimanendo nell’autunno e nell’inverno dei nostri mondani scontenti. Faccio mia una riflessione dello stesso autore che ho citato precedentemente: «Le primavere della Chiesa arrivano sempre senza segni premonitori… Una primavera che per qualcuno è già arrivato della fine del mondo, o forse, della fine di un mondo che se sarà sfidato non si arrenderà, se sarà sconfitto non sarà mai rimpianto». Amen.

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