Riflessione del Vescovo Pietro sulla celebrazione liturgica dell’Assunzione di Maria in cielo

Pubblicato su Avvenire del 27 luglio 2019

«Il corpo immacolato della Madonna, abitazione per nove mesi del redentore, del Figlio di Dio. Che cosa è avvenuto di questo corpo benedetto? Se oggi noi possiamo dal mistero dell’Assunta cavare una consolazione, è proprio questa: ella è andata avanti e noi la seguiremo. Il suo corpo immacolato è maturato per l’eternità gloriosa prima di noi. Ma anche noi un giorno, anche questo mio povero corpo, anche il corpo di ognuno di voi, delle persone che avete più care, e di cui ad un certo momento con fatica tratteniamo nella nostra immaginazione le sembianze care, anche noi giungeremo a questa glorificazione. Questa mattina noi pregustiamo nella speranza quello che sarà il nostro destino eterno. E di questa speranza dobbiamo farne parte specialmente a coloro che in questi giorni, e sono centinaia e centinaia di povere famiglie, hanno bisogno anche di questa speranza, per non far diventare sterile il loro dolore».
Era il 15 agosto del 1956 e don Primo Mazzolari aveva accenti di vibrata commozione nella omelia che non poteva dimenticare la tragedia, appena consumata, dei morti nella miniera di Charleroi. La parola di Dio taglia il cuore e la storia e non deve mai essere, nell’annuncio, evasiva, edulcorata, teoricamente e astrattamente valoriale, ma comunicare il mistero della salvezza rendendo Dio contemporaneo alle strade percorse dall’uomo.
Così la bellezza di Maria Assunta può e deve diventare una pagina ultima da inserire nelle pagine penultime della nostra avventura umana e cristiana. E le parole da leggere e da rileggere sono fili che ritessono certezze antiche da indossare su abiti nuovi. La grandezza della vita umana non consegnata all’annullamento, la dignità del corpo non mercificabile, la nostalgia struggente della felicità eterna, la lotta alla corruzione del peccato e a comportamenti privati e pubblici di ostentazione del peccato, la trasfigurazione dell’esistenza nella logica dell’amore che assume totalmente la condizione dell’altro, non più «altro da me ma altro dentro di me».
Non «rendere sterile il dolore»: il monito di don Primo restituisce la cultura e la prassi della prossimità in un tempo di spalmato narcisismo esistenziale e di diffusa religiosità intrisa di languori che non diventano assunzione del vangelo delle beatitudini. Così la visione del cielo assume la dimensione dell’essere visti dal cielo. Diceva Paolo VI: «Un cannocchiale è puntato verso di noi dal cielo. Un occhio ci guarda, ci spia, ci veglia, ci insegue, ci perseguita. Rispondi se mi ami o no».
Dobbiamo rispondere sì. E Jean Guitton commentava che tutto porta a «un misto di audacia, di candore, di utopia, impegno totale, radicale a gettarsi nelle difficoltà dell’uomo, nel vortice stesso dell’esistere». La stessa morte non sarà più vista come la disperata solitudine dell’essere, ma una attesa del credente con la stessa invocazione di uno dei personaggi dell’Annuncio a Maria di Paul Claudel: «Benedetta sia la morte nella quale tutte le domande del Padre nostro si compiono».

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