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Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

Dopo il venerdì santo della croce, dopo il sabato del grande silenzio, Maria di Magdala si reca alle porte di Gerusalemme, spinta dall’affetto che continuava a legarla al maestro, nella tristezza sconsolata che la storia di Gesù era ormai una storia chiusa, chiusa per sempre sul Calvario. E invece era una storia che si apriva, che ricominciava, era un libro che non conteneva l’ultima pagina. Cosa vide Maria? I suoi occhi diventano i nostri occhi. Vide la pesante pietra del sepolcro rotolata via come se un vento impetuoso l’avesse scagliata lontano. E poi, anche Pietro e Giovanni entrarono e videro la tomba vuota, i teli per terra e il sudario ripiegato a parte. E videro, e credettero. E i quaranta giorni dopo la risurrezione furono i giorni del perdono, degli affetti ritrovati, della garanzia che il Vangelo di Cristo non era rimasto inchiodato sul legno della croce ma cominciava a percorrere le strade del mondo per lievitare una nuova umanità: un uomo nuovo. L’uomo che può vincere il suo peccato, come Cristo ha vinto la morte. L’uomo che può credere e sperare che l’amore ha sempre l’ultima parola, l’uomo che non naufraga nell’abisso della morte perché può dire: «Il mio corpo non vedrà la corruzione. Diventato uno in Cristo col Battesimo, anche io risorgerò come Cristo è risorto».
C’è un rumore di fondo di fronte a questo grido: «Anche io risorgerò come Cristo è risorto». È il rumore di fondo di una parte della società, di donne e uomini che non riescono più a vedere l’ultimo cancello dell’esistenza. Quella parte di società che chiude e apre, quella che se non chiude non apre. Uomini che rendono la loro vita un deserto di sabbia, dove la sabbia copre un continuo agitarsi senza speranza. La speranza nella risurrezione dà luce a tutte le nostre speranze umane. È la certezza dell’eternità che ci fa camminare oltre quel cancello, oltre le delusioni, oltre gli smarrimenti, sempre oltre, fino all’oltre senza fine. E noi cristiani non siamo fuori di testa dentro questa speranza perché, la nostra testa, la nostra intelligenza, non è un vuoto a perdere, da quando è stata illuminata dalla luce e dal vento del mattino di Pasqua. Scriveva padre Turoldo, il mistico dell’infinito: «È il vento della Pasqua che questa notte e oggi passa lungo tutti i cimiteri del mondo. Passa di tomba in tomba e ad ogni tomba dice “Risorgerai”. E a tutte le tombe dice “Risorgerete”. È il vento della Pasqua che dice ad ognuno di noi: “Sei nato nel cuore di Dio e sei destinato a rientrare in questo cuore”». Tutto questo non è sentimento, perché porta a capovolgere, ora, il nostro modo di essere. Porta sin da ora a morire ad un vecchio modo di vivere per risorgere ad un nuovo modo di vivere: è la scelta della risurrezione. Non vi sembri paradossale questa espressione. Non siamo chiamati solo a credere nella risurrezione, siamo chiamati a scegliere la risurrezione. Sì, perché siamo chiamati ad essere cristiani della Pasqua. Un antico padre della Chiesa, sant’Atanasio, scrive: «Cristo ha distrutto la morte come fa il fuoco con le foglie secche». Ecco le nostre foglie secche da bruciare. Ognuno ha le sue foglie secche da bruciare con il fuoco della risurrezione. E nessuno può farsi giudice del prossimo, se non mettersi in prima persona di fronte all’unico specchio che non mente, l’unico che riflette il proprio volto senza deformazioni: lo specchio di Cristo. E lasciare che sia lui a travolgerci e a bruciare le foglie secche della nostra vita con il fuoco del suo Vangelo.
Don Primo Mazzolari scrive una pagina di straordinaria provocazione. «La Pasqua spartisce l’umanità, ci vaglia, ci butta o alla deriva o verso il porto». Il Vangelo di Cristo assunto e testimoniato ci conduce verso il porto, mai verso la deriva. Tante le derive. La deriva è l’essere abbandonati alla barca della propria solitudine, sconosciuta a noi stessi. La deriva è il naufragio di una società dove nessuno si sente responsabile di nulla. La deriva è costruire giorno dopo giorno una società dove un’intera generazione rischia di perdersi perché è stata tradita. Tradita, perché a questa generazione si dice che Dio non serve, che Dio è inutile e che la vita è soltanto un arrampicarsi sopra le spalle degli altri e vendersi al Sinedrio o al Pilato di turno. Il porto al contrario è il volto di Gesù risorto, è il Vangelo del risorto. Il Vangelo stampato nel volto di ogni persona che soffre nel corpo e nell’anima. Toccare il Cristo risorto significa toccare queste ferite aperte. Il porto è credere nell’amore, senza tradimenti, senza fughe, senza aspettarsi nulla. Il porto è la misericordia di Gesù che ci rialza dopo ogni peccato, per poi dirci di contaminare, noi, di perdono i rapporti, le situazioni. Il porto è sapere che in un mondo di pane raffermo, perché sempre più svincolato di senso, c’è Cristo che nell’Eucaristia offre il suo corpo glorioso per fermentare in noi la vita eterna. Il porto è ricredere che dopo la morte non c’è nulla e, come Cristo è risorto, anche noi siamo destinati alla luce senza tramonto. Questo è il fondamento della nostra gioia. Questo è il fondamento della nostra speranza. Lo so, è difficile credere tutto questo, soprattutto nel momento drammatico che stiamo vivendo tutti. È difficile crederlo dentro il pianto che accompagna le morti in solitudine, lontani dagli affetti più cari. Ci vuole coraggio a credere quanto in questi giorni è stato proclamato, nella XIV e XV stazione della via crucis del venerdì santo. Quando nemmeno ai parenti è dato di assistere e accompagnare le salme. Si muore da soli. Da soli si finisce in polvere. E scorgere la salvezza oltre la morte, risulta ancora più difficile. Dietro il velo di lacrime e di dolore, i nostri occhi non la vedono. Però, la pietra del sepolcro è rotolata, Gesù l’ha spinta oltre per noi. Allora e per sempre. Non possiamo e non dobbiamo ricollocare la pietra tombale dinanzi al nostro cuore e nelle nostre famiglie, sigillando paure e speranze. Ma come ha detto papa Francesco durante la veglia di questa notte: «Dobbiamo ripartire con coraggio seminando germogli di speranza». Possiamo e dobbiamo farlo. Ora, dentro le nostre case e domani oltre il recinto, oltre ogni recinto. Auguri!

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