Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
ai funerali dei quattro escursionisti morti sul Velino
Valeria Mella, Gianmarco Degni, Gian Mauro Frabotta e Tonino Durante

Valeria, Giammarco, Gian Mauro, Tonino, qui nella nostra chiesa, chiesa madre dei Marsi, ci siamo tutti. Ci siamo tutti. Ci sono i vostri genitori, i vostri familiari con il cuore attraversato dal dolore. Ci sono le istituzioni che hanno vissuto con sofferta responsabilità i giorni dello smarrimento. Ci sono le forze dell’ordine, le donne e gli uomini del soccorso: una catena straordinaria di impegno, di professionalità e di abnegazione. Ci sono i vostri amici, quanti hanno accompagnato le vostre relazioni più personali nel tempo che avete attraversato. Ma c’è qui tutto il popolo di Avezzano, c’è il popolo dell’intera Marsica che vi ha adottati come figli, come fratelli e sorelle. Vi ha adottati come una terra antica, ma sempre capace, come nessun’altra terra, di avere un’anima di passioni alte mai spente. Dove la sofferenza di uno è la sofferenza di tutti, le speranze di uno sono le speranze di tutti. La Marsica, fiera del suo creato di struggente bellezza che solo chi è capace di stupore e di meraviglia può cogliere. E voi, Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino siete stati cercatori di meraviglia e di bellezza lungo i sentieri del Velino. E per quel mistero che nessuna spiegazione umana potrà mai cogliere, e mai coglierà nelle sue profondità, non vi siete fermati, ma avete continuato il viaggio verso il tempo senza confini dell’eternità, lungo i sentieri infiniti dell’eternità.
Carissimi tutti, ci sono e ci saranno le spiegazioni della scienza sulle dinamiche dell’evento, ma rimangono lancinanti i nostri «Perché?». E non abbiamo paura di rivolgere al Signore i nostri «Perché?», le nostre domande. Non abbiamo paura di domandare: «Perché, Signore?». La fede è sempre domanda, è sempre inquietudine del cuore e non c’è risposta tascabile ai nostri perché. Non c’è. Oggi siamo avvolti da un velo che ci separa dalla verità nascosta, ma quando, come annunciano le scritture ci sarà tolto il velo dalla conoscenza, e vedremo Dio faccia a faccia, allora capiremo e capiremo tutti il perché di queste morti e il perché di tutto il dolore innocente che attraversa la terra. Ma una verità già esiste ed emerge dalla croce: sulla croce c’è il senso di tutto. Sulla croce Dio ha accettato e scelto il dolore per redimere l’umanità. La croce come suprema cattedra dell’amore che salva. Così in ogni sofferenza è Cristo che soffre, in ogni crocifisso nella morte è Cristo crocifisso. Ma è anche vero che in ogni volto crocifisso nella morte è già stampato il volto della vita senza fine, il volto di Cristo risorto.
La risurrezione non è soltanto la suprema e consolante certezza della nostra fede, è una forza, una forza che agisce in noi e attraverso di noi nel tempo che ci è dato. Un tempo che vede in tanti l’eclisse di Dio sul senso ultimo della vita, sul senso legato alla speranza di una luce mai spenta che splende nelle parole di Gesù «Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me non morirà in eterno». Una luce che siamo chiamati a trasmettere nella volontà di essere costruttori di una terra, e di una società, dove la cura dell’altro e la custodia dell’altro è l’orizzonte di ognuno e di tutti. Ma questo è faticoso. Questo costa. Costa un prezzo sul piano personale e sul piano dei gesti concreti, perché porta a superare tre atteggiamenti oscuri. Il primo, il cinismo del pensiero. Non esiste una terra nostra ma soltanto il mio piccolo perimetro recintato e sbarrato. Il secondo, l’assenza del pensiero ideale. L’assenza di una ragione per vivere e morire. Tutto diventa interesse personale, tutto diventa maschera e mercato. Il terzo, la nebbia del puntare il dito. La nebbia che porta al non ascoltare le ragioni dell’altro e frantuma le parole della misericordia.
Ci è chiesto di non essere miopi, ma di vedere e di camminare con il vangelo nel cuore e nelle mani, perché il vangelo è la mappa che indica l’orizzonte ultimo e fa entrare l’orizzonte ultimo dentro il nostro oggi frammentato. Ci è chiesto di essere donne e uomini che hanno in mano il sacchetto della vita e non metteremo sassi nel sacchetto ma il pane della fraternità. Qualcuno dirà: «Ma questo è un sogno?». Sì, è il sogno di Dio su di noi. Poi è sempre vero che se è il sogno di uno resterà tale, ma se è il sogno di un popolo diventerà sempre realtà.
Carissimi, le anime di Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino sono vive. Vive nel centro dell’eternità, là dove il Padre e il Figlio sono l’uno accanto all’altro nell’intimità dello Spirito. In quel centro, alziamo gli occhi, è anche la nostra patria. E le loro anime ci parlano, e noi chiediamo loro di parlarci. Esse chiedono il dono dell’ascolto, facendo tacere ogni rumore dentro di noi. Ci parlano le loro anime, parlano ai genitori e ai loro familiari di gratitudine, di tenerezza e di amore. Devono parlare anche al nostro cuore. Che cosa ci dicono? Ci dicono di lasciarci avvolgere dal soffio dell’eternità, perché avvertire il soffio dell’eternità porta ad assumere il tempo della storia e il tempo dell’eternità, nella responsabilità di costruire l’umano nella luce senza ombra della Gerusalemme celeste, nella città senza divisori e senza mura. Quell’umano fatto di relazioni strappate ai calcoli dell’indifferenza, all’ingordigia dell’io restituito al noi insieme. Quell’insieme che è anche la cifra della loro morte e del nostro esser qui a celebrare questa santa liturgia. I nostri defunti insieme sono saliti su Velino, insieme sono stati travolti e insieme li collochiamo sull’altare.
Sulla tomba dei miei genitori ho voluto che si scrivesse semplicemente: «Ci rivedremo». Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino, ci rivedremo. Ci rivedremo quando ognuno di noi cesserà di essere un mendicante di luce e finalmente, tolto l’ultimo velo, comprenderemo pienamente e per sempre chi siamo.
In primavera, lungo valle Majelama e sotto il colle del Bicchero, si scioglierà la neve e spunteranno i fiori delle alture. E ora il vostro fratello vescovo vi affida una piccola parabola. Quanti torneranno a salire sul Velino potranno e dovranno guardare quei fiori e portare al cuore i vostri occhi, i vostri occhi sorridenti, quelli che abbiamo tante volte visto nei lunghi giorni dell’attesa, e potranno guardarli dentro la vertigine del mistero più grande che ci porta a dire: siamo tutti incubati durante l’inverno, cresciuti nell’estate e nell’autunno della vita terrena e destinati ad essere trapiantati, fiori sempre verdi, nei cieli nuovi e nella terra nuova.
E allora di nuovo, Valeria, Giammarco, Gian Mauro e Tonino, ci rivedremo.

Clicca qui per ascoltare l'omelia

Iscriviti alla newsletter