Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla cattedrale dei Marsi in Avezzano

«Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica». L’invocazione del salmo liturgico incrocia le nostre personali invocazioni, e diventa un grido che raccoglie i nostri smarrimenti, un grido che chiede e che implora che non venga meno la nostra fede. Una fede che illumini il mistero dell’eterna presenza di Cristo nella nostra storia e sappia unire la passione del Signore alla passione del nostro popolo. Il nostro è veramente il tempo in cui la fede viene messa a dura prova, ma è anche il temo del credere. Come scriveva don Primo Mazzolari, in pagine profetiche aperte ad ogni epoca: «È tempo di credere, è tempo di fede. Non esistono tempi ordinari, esistono invece molti uomini che non capiscono la straordinarietà di ogni ora. Tutti i tempi sono tempi straordinari. Gesù è il pellegrino di ogni strada che rinnova la sua presenza. Lui, il nostro Dio fatto uomo, lui presente su ogni strada, in ogni uomo, in ogni creatura, in ogni cosa, perché io non sia più solo. Con i suoi occhi posso capire anche la morte. Senza di lui non capisco niente. Se non soffro insieme a tutti non sono un cristiano. Se non vivo la storia che passa, non sono un cristiano. Nessuno può tenere le mani in tasca per paura di contaminarle». Profonda l’affermazione: «Con gli occhi di Cristo posso capire anche la morte».
È vero, non posso spiegarla, ma posso capirla nel suo mistero; oltre le ragioni medico-scientifiche e non togliendo alla morte la sua drammaticità. Oggi stiamo vivendo tutti l’irruzione drammatica della morte. Capirla perché «la morte ci interroga come viandanti nello stretto marciapiede della terra», direbbe san Giovanni Paolo II, viandanti consapevoli che il viaggio termina. E dopo? E qui siamo avvolti dalla pagina di vangelo. Siamo avvolti dalla convinzione che in questa pagina di vangelo c’è tutto il mistero e la verità della morte e della vita. Siamo avvolti per entrare nel nostro tempo e riportare il vangelo al nostro tempo, anche dalla commozione e dal pianto di Gesù, dinanzi alla morte di Lazzaro. Siamo avvolti dal vertiginoso dialogo tra Marta ed il Signore. Gesù le dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo». Ecco la verità, immensa e scandalosa per chi non crede. Gesù, con la sua risurrezione, non solo ha vinto la sua morte, ma ha vinto la morte di tutti. Ogni foglia che cade non marcisce ma è avvolta dal vento della risurrezione. So che diventa difficile approdare a questi pensieri mentre ogni giorno ascoltiamo il numero dei morti e dei defunti, a causa del male terribile che ci è piombato addosso, mentre medici e infermieri tentano di strappare alla morte chi è stato contagiato, mentre preghiamo «liberaci dal male». È vero, siamo tutti nel vortice del turbamento, ma dentro questo vortice chiediamo al Signore il dono di piangere con chi piange, il dono di essere uniti nella sincera commozione di cuore, perché siamo legati da un destino comune: siamo tutti figli della stessa famiglia. E se non lo capiamo adesso, quando lo capiremo? Chiediamo al Signore il dono di non essere smemorati, di ripensare al mistero reale del nostro esistere.
La fragilità, compresa la fragilità estrema della morte, è parte costitutiva del nostro essere creature. Ma la morte è anche un parto. È il parto che ci genera all’eternità. Un’eternità che ogni frammento ricompone nel tutto che è Dio. Ed è a Dio che ogni giorno dobbiamo restituire la nostra vita, a lui che ce l’ha data, restituirla rendendola ogni giorno un canto di amore, in attesa dell’ultima restituzione. La grandezza della vita è tutta nell’amore. La miseria di una vita è l’essere rattrappiti di fronte allo specchio del proprio io. Dobbiamo camminare facendoci toccare dal vento e dal soffio dell’eternità. La fede non è un diversivo spirituale, il viaggio della vita verso il Padre porta a vedere il Padre in ogni uomo, perché lui ci riconsegna ogni uomo come fratello. Dobbiamo tendere il cuore ai nostri morti, a quelli di casa e a tutti gli altri. Tutti ci appartengono. Chiediamo ai nostri morti di parlarci. La loro voce è una voce sottile, va percepita nel silenzio. E cosa ci dicono i nostri morti? Ci ridonano all’amore che hanno sempre avuto per noi ma ci dicono anche «Tutto con Dio e nulla senza Dio». Questo è il senso della vita. Ci dicono che il vangelo è la mappa che orienta il cammino nella notte del mondo. E allora riprendiamo la speranza che non muore, perché noi siamo quelli che hanno speranza, noi non siamo ciechi che vagano senza meta. Noi siamo quelli che dicono, dinanzi alle tombe dei nostri cari – alle tombe lontane o vicine –, le stesse parole di Gesù dinanzi alla tomba di Lazzaro: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno».